Un po’ di storie su “12 anni schiavo”

Cosa c'è di vero e cosa di inventato nel "miglior film mai realizzato riguardo la schiavitù negli Stati Uniti", candidato a nove premi Oscar e uscito giovedì in Italia

This image released by Fox Searchlight shows director Steve McQueen, left, and actor Chiwetel Ejiofor during the filming of "12 Years A Slave." McQueen was nominated for a Golden Globe for best director for the film on Thursday, Dec. 12, 2013. The 71st annual Golden Globes will air on Sunday, Jan. 12. (AP Photo/Fox Searchlight, Jaap Buitendijk)
This image released by Fox Searchlight shows director Steve McQueen, left, and actor Chiwetel Ejiofor during the filming of "12 Years A Slave." McQueen was nominated for a Golden Globe for best director for the film on Thursday, Dec. 12, 2013. The 71st annual Golden Globes will air on Sunday, Jan. 12. (AP Photo/Fox Searchlight, Jaap Buitendijk)

La scorsa settimana è uscito in Italia 12 anni schiavo (12 Years a Slave) di Steve McQueen, da molti considerato il miglior film mai realizzato sulla schiavitù negli Stati Uniti e candidato a nove premi Oscar. Francesco Costa, giornalista del Post, ha raccontato per la rivista l’Ultimo Uomo cosa c’è di vero nel film, l’interessante storia del libro autobiografico da cui è tratto, e perché è stato definito per molti versi l’opposto di Django Unchained, il film sulla schiavitù di Quentin Tarantino.

Se a un certo punto qualcuno ha fatto un film definito in modo quasi unanime “il miglior film mai realizzato riguardo la schiavitù negli Stati Uniti”—finito in testa a decine di classifiche sui migliori film del 2013, candidato a 9 premi Oscar, uscito il 18 ottobre 2013 negli Stati Uniti e il 20 febbraio 2014 in Italia—un pezzo significativo del merito appartiene a una donna che si chiamava Sue Eakin, e che è morta nel 2009 a 90 anni.

Nel 1930, quando aveva 12 anni e viveva in Louisiana, Sue Eakin accompagnò suo padre a far visita a un amico di famiglia. Una volta arrivati, l’amico del padre prese un vecchio libro da uno scaffale e glielo passò, sperando che bastasse a intrattenerla come non avrebbe potuto fare la conversazione tra i due adulti. Quel libro catturò la sua attenzione come accade soltanto con certi libri quando si hanno dodici anni, e aveva dentro un sacco di nomi che le erano familiari, di posti dove era stata e di famiglie conosciute nella zona. Quando suo padre le disse che era ora di tornare a casa, e la trovò immersa nel libro, il suo amico le propose di portarlo con sé e restituirlo quando lo avrebbe finito. Nei mesi e negli anni seguenti Sue Eakin cercò di procurarsene una propria copia, ma il testo era fuori catalogo da più di settant’anni. Lo trovò qualche anno dopo in un negozio di libri antichi. «Quanto vuole per questo?», chiese al negoziante. «Bah, quel libro non vale niente, è pura fantascienza. Puoi prenderlo per 25 centesimi.»

Twelve Years a Slave fu scritto nel 1853 da Solomon Northup, un uomo nero nato libero che dodici anni prima era stato rapito a Washington D.C. e venduto in Louisiana come schiavo. Il libro di Northup si inserì in un fortunato filone letterario dell’epoca e il contesto storico era ideale: negli Stati americani del nord la schiavitù era già illegale, in quelli del sud da tempo stava perdendo terreno: non solo e non tanto per “umanità”—di lì a poco si sarebbe combattuta la guerra di secessione—ma soprattutto perché sempre più bianchi trovavano più economico assumere qualcuno per i loro lavori piuttosto che mantenere perennemente degli schiavi, anche quando non c’era da lavorare. Meno di un anno prima era uscito La capanna dello zio Tom, il più grande successo letterario del secolo, dal quale la scrittrice statunitense Harriet Stowe ottenne 10.000 dollari soltanto nei primi tre mesi dalla pubblicazione: all’epoca fu “la più grande somma mai ricevuta da un autore americano o europeo per le vendite di un singolo libro in così poco tempo”. La storia incredibile di Solomon Northup, poi, sembrava fatta per un pubblico di abolizionisti bianchi: racconta la storia di uno schiavo, ma di uno schiavo che era un uomo libero, che sapeva leggere, scrivere e suonare il violino, uno in cui era più facile identificarsi; e il suo calvario, che per la gran parte degli schiavi sarebbe durato dalla nascita alla morte, per lui era durato appena dodici anni (la stessa critica è riemersa in questi mesi anche riguardo il film: si è detto che 12 anni schiavo è un film sui neri per bianchi).

Il libro si può leggere integralmente online, sebbene non nella versione preziosamente annotata da Sue Eakin. Nella prefazione, il ghost writer David Wilson cita indirettamente La capanna dello zio Tom quando fa riferimento alla “narrativa di genere” sul tema della schiavitù: Wilson lo fa per spiegare che Twelve Years a Slave è tutta un’altra cosa. Quello che racconta Twelve Years a Slave è vero. All’epoca il libro fece discutere e per qualche tempo Northup ottenne una certa piccola notorietà nazionale, ma nonostante il buon successo la sua storia fu sostanzialmente dimenticata per decenni: come accade anche oggi a molti libri, il testo finì fuori catalogo dopo poco tempo e mai più recuperato—finché una bambina non se lo ritrovò fra le mani per caso nel 1930. Sue Eakin divenne una storica, una giornalista e un’insegnante, e dedicò alla storia di Solomon Northup decenni di ricerca. Nel 1968 pubblicò una versione del libro accuratamente editata e commentata, insieme allo storico Joseph Logsdon, di fatto riscoprendolo e restituendolo alla letteratura e alla storia. Nel 2010 Bianca Stigter lo mostrò a suo marito, Steve McQueen, che sapeva voler girare un film sulla schiavitù negli Stati Uniti.

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