La battaglia di Mogadiscio

Iniziò il 3 ottobre del 1993, provocò la fine dell'intervento dell'ONU in Somalia ed è stata raccontata dal film “Black Hawk Down”

Alle 15.42 del 3 ottobre 1993 un gruppo di soldati statunitensi delle forze speciali si calò su un edificio nel centro di Mogadiscio, in Somalia, per catturare alcuni “signori della guerra”. Secondo i piani avrebbero dovuto concludere l’operazione e tornare alla base, fuori città, in trenta minuti. Le cose non andarono secondo i piani, come raccontò il New York Times pochi giorni dopo e nel 2001 il film Black Hawk Down di Ridley Scott. La battaglia durò 14 ore e per l’esercito americano fu una delle più sanguinose dalla fine della guerra del Vietnam.

L’operazione
Alle 13.50 del 3 ottobre il comando americano, che faceva parte della missione delle Nazioni Unite UNOSOM II, ricevette informazioni di intelligence sul luogo dove si trovava Omar Salad Elmi, il ministro degli Esteri di Mohamed Farrah Aidid, uno dei signori della guerra che si contendevano la capitale della Somalia.

Aidid e i suoi uomini erano uno dei principali ostacoli all’obiettivo della missione: creare una zona di sicurezza per permettere la distribuzione di aiuti umanitari alla popolazione. Il comando americano decise allora di intervenire e catturare Salad e gli altri uomini di Aidid.

Il piano era semplice, in teoria: un gruppo di elicotteri avrebbe portato reparti della Delta Force e dei Rangers, due corpi speciali dell’esercito americano, intorno all’edificio dove si trovava Salad. I soldati avrebbero dovuto catturare il ministro e i suoi consiglieri mentre dalla base americana intorno all’aeroporto di Mogadiscio sarebbe partita una colonna composta di jeep Humvee e camion che avrebbe attraversato la città e recuperato i Rangers e gli uomini della Delta Force insieme ai prigionieri, per riportarli alla base.

Le cose si mettono male
La prima parte della missione venne eseguita quasi senza incidenti. Venti minuti dopo l’inizio dell’operazione l’edificio era stato occupato e venti prigionieri erano stati catturati. La Delta Force e i ranger erano pronti a evacuare l’area. Ma fuori i miliziani di Aidid avevano agito altrettanto in fretta – sul sito della PBS c’è una pagina molto chiara in cui vengono spiegate le varie fasi della battaglia.

Le truppe si stavano radunando intorno alla zona dell’attacco, mentre jeep con megafoni percorrevano la città ordinando alla popolazione di scendere in strada per “difendere le loro case”. L’intera città si stava mobilitando per impedire al convoglio di entrare e ai soldati già sul posto di uscire.

A scontrarsi con le prime resistenze somale fu il convoglio che doveva evacuare i prigionieri. Ovunque le strade erano bloccate da barricate improvvisate, copertoni in fiamme e ordigni esplosivi. Dalle costruzioni ai lati delle strade veniva un continuo fuoco di armi leggere. Alle 15.58 un camion americano fu colpito da un razzo e 27 soldati vennero feriti. Nonostante la resistenza somala, alle 16.15 il convoglio raggiunse gli uomini della Delta Force e dei Rangers e si preparò a rientrare alla base.

Black Hawk Down
Durante tutta l’operazione diversi elicotteri impiegati durante il primo sbarco rimasero in volo sopra la città. La loro funzione era sorvegliare i movimenti delle milizie e delle folle armate, oltre che fornire supporto alle truppe di terra. Alle 16.20 uno di questi elicotteri, il Black Hawk 6-1, venne abbattuto da un razzo sparato da alcuni miliziani.

Un gruppo di salvataggio fu immediatamente portato sul luogo dello schianto per proteggere i membri dell’equipaggio mentre il convoglio, oramai pronto a tornare alla base, venne dirottato per andare a recuperare i superstiti. Oramai però, gran parte della città e delle truppe di Aidid era stata mobilitata. Man mano che si inoltrava nella città, il convoglio incontrò sempre più resistenza e le perdite aumentavano a causa del fuoco dei cecchini nascosti sui tetti.

Alle 16.35 il convoglio, che avanzava tra le strade strette spesso impraticabili e quelle bloccate dalla barricate, sbagliò strada e si ritrovò intrappolato. Dalla posizione in cui si trovavano era impossibile proseguire verso il Black Hawk 6-1, mentre metà delle truppe a bordo dei veicoli erano stati uccisi o feriti. Cinque minuti dopo un altro Black Hawk – il 6-4, che aveva presto il posto del 6-1 – venne abbattuto.

Con il convoglio bloccato e impossibilitato ad aiutare l’equipaggio, due tiratori scelti della Delta Force si offrirono di farsi sbarcare per proteggere l’equipaggio ferito del secondo elicottero. La loro prima richiesta venne respinta, così come la seconda. Alla terza, visto che nessuna forza era disponibile per proteggere l’equipaggio dell’elicottero, ricevettero il via libera. Da soli vennero sbarcati vicino ai rottami dell’elicottero e si apprestarono a difenderlo contro una folla di somali che diventava più grande di minuto in minuto.

L’assedio
Con il primo convoglio bloccato nel tentativo di soccorrere il Black Hawk 6-1, alle 17 il comando americano decise di inviare un secondo convoglio per cercare di salvare anche gli uomini del 6-4 e i due tiratori scelti della Delta Force. Circa mezz’ora dopo i dopo i due convogli si incontrarono nel centro della città dopo aver subito gravi perdite.

A quel punto era chiaro che era impossibile proseguire con un qualunque tipo di mezzi verso i propri obiettivi. Le strade erano strette o bloccate da ogni tipo di barricata, mentre i camion senza protezione e le jeep solo leggermente blindate erano bersagli facili per i razzi dei miliziani somali. Alle 17.34 i due convogli invertirono la marcia e tornarono alla base con i prigionieri. Sul posto vennero lasciati un centinaio di ranger che proseguirono da soli e a piedi verso il sito dove si era schiantato il primo Black Hawk.

Per il secondo, il Black Hawk 6-4, non c’era più nulla da fare. Quasi nello stesso momento, alle 17.40, cioè un’ora dopo essere sbarcati, i due tiratori scelti che si erano offerti di proteggere il secondo Black Hawk, furono sopraffatti e uccisi dalla folla. Tutto l’equipaggio venne massacrato, tranne il pilota che fu salvato dall’intervento dei miliziani di Aidid che lo presero prigioniero.

Quando intorno alle 19 il sole tramontò, 99 soldati americani, molti dei quali feriti, erano asserragliati in alcune costruzioni intorno al sito dello schianto del primo Black Hawk. Non c’era nessuna possibilità di recuperarli prima che sorgesse di nuovo il sole e c’erano molti dubbi che anche allora sarebbe stato possibile farlo con i veicoli leggeri con i quali era equipaggiato il comando americano. Alle ore 21 gli americani chiesero aiuto alle altre truppe della missione ONU, tra cui malesi e pakistani, dotati di carri armati e veicoli pesanti.

Il recupero
Nessun piano per l’intervento di altre forze ONU era stato previsto e organizzare un nuovo convoglio di soccorso multinazionale richiese diverso tempo. Alla fine una forza di più di cento veicoli, che occupava una lunghezza di circa due chilometri, si mosse per portare in salvo i ranger assediati.

La colonna comprendeva quattro carri armati pakistani, molti veicoli blindati malesi, oltre ai camion e alle jeep dell’esercito americano. Il convoglio raggiunse i soldati assediati alle due di notte, subendo diverse perdite a causa dei continui attacchi dei somali. Alle 6.30 di mattina l’operazione venne conclusa e tutti i soldati americani fecero ritorno allo stadio di Mogadiscio, dove aveva sede il contingente pakistano.

Dopo la battaglia
In tutto gli americani subirono 18 morti, 73 feriti e un prigioniero (che fu rilasciato 11 giorni dopo). Un soldato malese e uno pakistano vennero uccisi, mentre furono feriti sette soldati malesi e due pakistani. Non si conoscono esattamente le perdite delle milizie e dei civili somali, ma le stime vanno da un minimo di 300 morti tra miliziani e civili a più di mille.

L’impatto mediatico della battaglia fu enorme. Tutte le televisioni e i giornali del mondo trasmisero le immagini e pubblicarono le foto dei corpi dei soldati americani uccisi e portati in trionfo per le strade di Mogadiscio. Il presidente Bill Clinton, che aveva promosso la missione, venne duramente criticato.

In molti lo accusarono di aver impegnato i soldati americani in una missione in cui gli Stati Uniti non avevano alcun vero interesse. Altri criticarono la scelta di impegnare soltanto truppe dotate di veicoli leggeri che durante la battaglia si erano dimostrati molto vulnerabili – una scelta, quest’ultima, dovuta proprio al fatto che Clinton non desiderava dare l’idea che gli Stati Uniti si stessero impegnando con troppe forze in un teatro così lontano come la Somalia.

Clinton ordinò il ritiro della missione entro sei mesi. Più tardi disse che quel ritiro era stato comunque una vittoria parziale, perché era riuscito a imporre ai repubblicani un ritiro ordinato nel giro di sei mesi invece di un ripiegamento frettoloso in poche settimane.

Un anno dopo, nel marzo 1995, la missione UNOSOM venne abbandonata. L’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Boutrous Boutrus Ghali, disse senza mezzi termini che la missione era stata un fallimento. La guerra civile in Somalia e gli scontri tra i vari clan e signori della guerra sono ancora in corso da allora.

La battaglia di Mogadiscio ebbe anche altri effetti, che si estesero oltre i confini della Somalia. Circa un anno dopo la battaglia, nel vicino Ruanda, iniziò il genocidio dell’etnia Tutsi da parte degli Hutu. Molti commentatori e analisti osservarono che il rifiuto degli Stati Uniti di impegnarsi per fermare il massacro ebbe molto a che fare con la battaglia di Mogadiscio e col suo impatto mediatico. Come spiegò Walter Clarke, allora inviato del governo americano in Somalia, per molti anni: «lo spettro di Mogadiscio ha continuato a infestare la politica estera americana».