Al fruttivendolo piace fare conversazione mentre pesa i pomodori: «Ha notato che i ragazzini non portano più le scarpe con i lacci? Poi, sfido che non sanno allacciarsele». L’edicolante è turbato dalla scomparsa del portapacchi: «Secondo lei è perché abbiamo meno bagagli o bagagliai più grandi?». Il dentista, trapanando il terzo molare superiore sinistro, sospira: «Ma lo sa che io le rimpiango, le otturazioni d’oro?».
Per tre anni ho scritto su D di Repubblica una rubrica intitolata Cose che non vanno più di moda (questo libro nasce così). Per tre anni ho ricevuto consigli, a voce e per lettera, via sms e per email. Posta pneumatica e sciolina, autostop e idrolitina, giornaletti porno e orologi a cucù: non c’è stato gesto, abitudine e oggetto scomparso o in via di estinzione di cui qualcuno non mi abbia pregato di scrivere. Avevo deciso di rivangare il passato, non di provocare un tumulto emotivo. Ma il rimpianto è una specie di droga, dà dipendenza. Se qualcuno, ispirandosi agli Alcolisti, fondasse la Nostalgici anonimi, sarebbe sommerso di richieste perché molti sarebbero entusiasti di sottoporsi a sedute di terapia di gruppo per imparare ad accettare la scomparsa delle cose.
«Buongiorno, mi chiamo Pietro, ho 72 anni, lavoravo in pubblicità».
Coro: «Ciao, Pietro, benvenuto».
Pietro (spiegando con le dita un foglio a quadretti): «Mi sono appuntato un po’ di cose di cui sento la mancanza: gli scaldini, gli stradini, le stilografiche, i risultati delle partite scritti fuori dai bar, le radioline di domenica, le terze visioni, l’avanspettacolo prima del film e la nebbia, soprattutto la nebbia».
Applausi di incoraggiamento.
Antonio: «Ciao a tutti, io sono Antonio, ho 60 anni».
Coro: «Ciao, Antonio. Grazie di essere venuto».
Antonio: «Sono qui per parlarvi delle cartoline illustrate e della carta carbone. Erano importanti una volta, sembravano eterne, indispensabili, invece poi sono sparite e nessuno se n’è accorto. Alcune cose scompaiono, altre sopravvivono in segreto. L’altro giorno sono entrato in un negozio di Milano, il Grissinificio Edelweiss, e per me è stato come riprecipitare negli anni Sessanta: avevano solo tre modelli di grissino, bianchi, dorati e bruciacchiati. Non vendevano nient’altro. Ci pensate?».
Risate in sala.
Mariella: «Io sono Mariella, ho 50 anni, faccio la maestra d’asilo. Vent’anni fa se raccontavo una favola in classe, i bambini stavano zitti e attenti. Adesso si distraggono subito. Forse hanno troppi stimoli. Riescono a seguire molte cose insieme, ma con una soltanto si annoiano».
Le teste annuiscono, come nel nuoto sincronizzato.
Rossana: «Mi chiamo Rossana, ho 41 anni, lavoro in tv. Ho notato che sono spariti i rullini, i negozi di sviluppo e stampa, gli album fotografici e le diapositive. Ho pensato che i ricordi futuri avranno una forma diversa».
Marta: «Sono Marta, 32 anni, giornalista. Vorrei che qualcuno mi spiegasse perché le mani delle donne sono cambiate. In giro si vedono unghie lunghe, finte, leopardate, a strisce, a pois, a stelline. Manicure pazzesche, lavori da artista. Sono anche comparsi negozi specializzati. Io adoro mangiarmi le unghie. Mi devo sentire in colpa?».
Gianmaria: «Buonasera, ho 23 anni, mi sono laureato da poco. A parte qualche vecchio decrepito, nessuno racconta più barzellette. Alcune mi facevano ridere».
Chiara: «Ciao, sono Chiara, 17 anni. Perché Mtv non fa più i video a rotazione?».
Simone: «Ho 12 anni, mi chiamo Simone. Mi pare che alle elementari mi divertivo di più».
Coro: «Ooooooohhhhhh!».
La nostalgia si riavvolge all’indietro e non fa distinzioni: riguarda tutti e ogni cosa. È un rimpianto democratico e universale che non dipende dall’età (anche i neonati forse rimpiangono il buio caldo del ventre), non è in relazione con il valore degli oggetti perduti (si prova nostalgia anche delle cose banali, anzi soprattutto di queste) né con la loro genuinità. La nostalgia è un atto culturale. La memoria di chi è nato nel Novecento è impregnata di aromi sintetici. È memoria industriale. Il passato è un inventario sentimentale e artificiale, che il rimpianto fa sembrare autentico e, dunque, naturale. Ma se Marcel Proust uscisse dalla tomba per aggiornare la Recherche e andasse in giro a chiedere quali siano le nuove madeleines – i sapori e gli odori in grado di suscitare la memoria involontaria e resuscitare l’infanzia – nessuno gli parlerebbe di uova sbattute, pane burro e zucchero, torte della nonna e marmellate della zia.
Molti ricorderebbero odori e sapori di merci prodotte in serie, di consumi di massa. Citerebbero la colla coccoina che a scuola assaggiavano in tanti, l’alcol denaturato e la naftalina negli armadi, le figurine, i giornali appena stampati, il grasso delle catene delle bici, il pallone Super Tele Rigonfiabile e la sensazione polverosa del gesso nelle narici e sulle dita quando si andava alla lavagna. Le nostre madeleines sono lucidalabbra alla fragola, shampi alla mela verde e borotalchi. Sono i bagnoschiuma improbabili con cui ci lavavano quando eravamo bambini. E lo stesso – per passare dal naso alla lingua – avverrebbe con i sapori. Il nostro passato è imbottigliato nel gusto dolciastro dei francobolli che i grandi a volte ci facevano leccare; in bicchieri di orzata, lattementa e tamarindo; spuma, gassosa e sanguinella; in caldarroste, zucchero filato e latte condensato. È imprigionato dentro le caramelle Rossana, Charms e Sanagola, nelle galatine quadrate che adesso sono diventate tonde, dentro la Manna, la Terra Cattù e la Citrosodina; nei biscotti Hurrà Saiwa, nei Buondì e nelle Girelle Motta, che a giudicare dal numero di menzioni rappresentano, forse, le nostre vere madeleinettes. La memoria involontaria dei contemporanei riaffiora grazie a odori e sapori chimici, pieni di conservanti e coloranti, a dimostrazione che la natura è un mito sempre, e a causa della pubblicità e del mercato ancora di più. Perché dentro il Mulino Bianco andavano a bucarsi i tossici. Natura è il nome che diamo al passato quando ci manca.