Dieci canzoni dei Roxy Music

Che cominciarono a occupare le classifiche quarant'anni fa, e poi andarono avanti per un pezzo e furono molto imitati

23rd September 1982: English pop star, Bryan Ferry, the lead singer of Roxy Music. (Photo by Hulton Archive/Getty Images)
23rd September 1982: English pop star, Bryan Ferry, the lead singer of Roxy Music. (Photo by Hulton Archive/Getty Images)

40 anni fa, alla fine di settembre 1972, il primo disco dei Roxy Music – che si chiamava “Roxy Music” – arrivò al decimo posto della classifica del Regno Unito, sancendo un precoce successo per la band londinese guidata da Bryan Ferry che si era formata solo l’anno prima. Da lì in poi fecero grandi cose e furono modello di molto di quello che successe dopo nella musica britannica e non solo. Queste sono le loro canzoni che Luca Sofri, peraltro direttore del Post, aveva scelto per il suo libro Playlist.

Roxy Music (1971-1983, Newcastle, Inghilterra)
Senza offesa per nessuno, si può dire che i Roxy siano stati il trait d’union tra i Velvet Underground e i Duran Duran. Con l’ambizione avanguardistica e intellettuale dei primi e la vanità estetica dei secondi, e la contiguità con modelle ed élites creative di entrambi. Identificati nettamente con la faccia, il vocione e la paraculaggine di Bryan Ferry, furono ispirazione per la new wave degli anni Ottanta e sperimentatori di stranezze melodiche ed enfasi teatrali. Fecero grande musica e canzoni stupende.

Beauty queen (Stranded, 1973)
Qui c’era ancora Brian Eno, che poi avrebbe lasciato il gruppo in cerca di maggiori sperimentazioni e avrebbe trovato pane per i suoi denti. La regina del titolo è una modella e si chiamava Valerie (dovevano ancora arrivare Jerry Hall e Amanda Lear, nella vita di Ferry e sulle copertine dei Roxy Music).

A song for Europe (Stranded, 1973)
Esibizione da palcoscenico di struggente decadenza, un circo gigionesco insuperabile. Lui è lì, seduto a questo caffè deserto, che pensa a lei, ma pare di vederlo in vestaglia attaccato alle tende della camera d’albergo, a Parigi o a Venezia. Nella canzone ci sono gondole, francese, latino, e rime sorrow-tomorrow che avrebbero fatto impallidire Gazebo. Applausi, sipario. Applausi.

In your mind (In your mind, 1977)
Fu il primo disco solista di canzoni sue di Bryan Ferry. Più roccheggiante in senso canonico, come testimoniano i tre monumentali colpi di batteria al cambio di strofa della title-track.

Dance away (Manifesto, 1979)
Malgrado la storia sia insieme incongrua e abusata – lui la lascia a casa, le dà un bacio e la sera dopo lei sta “hand in hand” con un altro – a un certo punto, dopo essere inciampato persino in un “my whole world has changed”, Bryan Ferry si inventa questa: “you’re dressed to kill and guess who’s dying?”. Ma basta una notte sulla pista da ballo, e passa tutto.

Same old scene (Flesh + blood, 1980)
Io lo vedo, Simon LeBon, da solo nella sua cameretta che riascolta “Same old scene” mille volte fino a conoscerne ogni suono, e poi si guarda allo specchio dentro l’anta dell’armadio, lo specchio a cui sono incollate con lo scotch le foto di Bryan Ferry, e si dice: “io voglio esser come te”.

Over you (Flesh + blood, 1980)
Qui erano rimasti in tre, ma Phil Manzanera e la sua chitarra da soli bastano a rendere memorabile questa canzone. Poi c’è Bryan Ferry, naturalmente. L’intermezzo strumentale con la pianola tornerà buono a una dozzina di band inglesi dieci anni dopo.

Oh yeah (Flesh + blood, 1980)
Stanno suonando la nostra canzone: “there’s a band playing on the radio, with a rhythm of rhyming guitars. They’re playing to you on the radio, and so came to be our song”. Una specie di grato inno all’autoradio e a tutte le emozioni che ci ha dato (escludendo quelle della mattina in cui ce l’avevano rubata).

Avalon (Avalon, 1982)
Nella storia del rock l’elemento fondamentale sono le canzoni, e va bene. Ma ogni tanto un piccolo sottoelemento – i suoni – ottiene una sua propria e immortale identità. Quei due tocchi e mezzo di chitarra all’inizio di “Avalon” non sono nemmeno ancora una melodia, non sono niente: sono due suoni (e mezzo). Indimenticabili.

More than this (Avalon, 1982)
“Avalon” fu l’ultimo disco dei Roxy Music, poi ognun per sé (Bryan Ferry già aveva cominciato a farsi i fatti suoi con buoni risultati). Fu anche il loro lascito agli anni Ottanta e al decennio che sarebbe stato segnato dai loro allievi. Se ne andarono alla grande, con un disco affollato di buone canzoni in ogni ordine di posti. Questa è la più nota, e permise loro di sfondare finalmente anche in America. Dove i 10,000 Maniacs se la presero per una bella cover.

Take a chance with me (Avalon, 1982)
Questa dice che “people say I’m just a fool”. John Lennon in “Watching the wheels” spiegava che “people say I’m crazy”. Serpeggiava in quegli anni una certa inclinazione alla paranoia, tra le grandi rockstar.

Foto: Bryan Ferry durante un concerto dei Roxy Music il 23 settembre 1982 (Hulton Archive/Getty Images)