Il successo di Springsteen in Europa

Un giornalista del New York Times si chiede perché canzoni così profondamente "americane" abbiano così tanto successo anche da noi

US singer Bruce Springsteen and The E Street Band perform, on May 17, 2012 at Palau Sant Jordi in Barcelona.AFP PHOTO/LLUIS GENE (Photo credit should read LLUIS GENE/AFP/GettyImages)
US singer Bruce Springsteen and The E Street Band perform, on May 17, 2012 at Palau Sant Jordi in Barcelona.AFP PHOTO/LLUIS GENE (Photo credit should read LLUIS GENE/AFP/GettyImages)

Ieri Repubblica ha pubblicato un articolo del giornalista del New York Times David Brooks sul tour europeo di Bruce Springsteen. Nell’articolo, pubblicato sul giornale statunitense il 26 giugno scorso, Brooks si chiede come sia possibile che anche i pezzi più “americani” di Springsteen, che parlano di situazioni e di luoghi molto definiti degli Stati Uniti, siano così apprezzati anche dal pubblico europeo: la sua risposta coinvolge anche i gruppi più recenti, che “non riescono a riempire gli stadi con continuità”, e che non si limita alla musica.

Dicono che non puoi dire di aver visto veramente un concerto di Bruce Springsteen se non l’hai visto suonare in Europa: perciò io e alcuni amici abbiamo gettato al vento il buon senso finanziario e lo abbiamo seguito nelle tappe del suo tour in Spagna e in Francia. A Madrid, ad esempio, siamo stati ricompensati con uno show che è durato 3 ore e 48 minuti, forse il più lungo concerto di Springsteen di tutti i tempi, e uno dei più belli. Ma quello che mi ha colpito davvero è stato il pubblico.

I fan di Springsteen negli Stati Uniti ormai sono gente vicina alla pensione (o in pensione già da parecchio), in Europa il pubblico è molto più giovane. La passione dei seguaci del Boss in America è sfrenata, ai limiti del culto. L’intensità degli spettatori nel vecchio continente è due volte di più, con un profluvio di rumore e movimento che a volte mette in ombra quello che sta succedendo sul palco.

In mezzo alla penisola iberica ho visto masse di persone cantare parola per parola pezzi che parlano della Highway 9, di Greasy Lake o di qualche altra esotica località sulla costa del New Jersey, brandendo cartelli dove chiedevano canzoni ripescate dai recessi più profondi e più inconfondibilmente americani del repertorio springsteeniano.

Il momento più strano è stato a metà concerto, quando ho guardato lo stadio di calcio e ho visto 56.000 spagnoli rapiti, che agitavano con fervore i pugni in aria all’unisono e urlavano a perdifiato: «I was born in the U.S.A.! I was born in the U.S.A.!».

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