Austria, giugno 1975
Quando manca poco più di un’ora all’atterraggio, lo Spirit of ’76 entra in un’area di violente turbolenze e le stoviglie apparecchiate con cura sul piccolo tavolo da pranzo cominciano a spostarsi e avvicinarsi al bordo. I bicchieri cozzano di continuo e la zuppiera con lo stemma presidenziale prima si inclina su un lato e poi precipita per terra, allontanandosi a grande velocità lungo lo stretto corridoio in moquette chiara. Le dimensioni dei piatti, la tappezzeria delle comode poltrone da prima classe, ogni singolo dettaglio è stato scelto da Nixon, e non da lui. Lo stesso Boeing 707 che ora si arrampica sulle creste d’aria e poi precipita per decine di metri nel vuoto è stato scelto, o almeno richiesto, da Nixon, che l’ha voluto chiamare così a quattro anni dal Bicentenario, per evocare lo spirito patriottico e indipendente di una Nazione libera da qualsiasi giogo, tranne che dal suo. A dire la verità gli aerei battezzati Spirit of ’76 sono due, il SAM 26000 e il SAM 27000 su cui viaggia ora il Presidente; sono quasi identici ed entrambi sono stati da poco dotati di un moderno sistema di difesa antimissilistica come risposta alla continua minaccia di attentati terroristici, altra grande novità toccata in sorte a Gerald Rudolph Ford Jr, l’uomo seduto dietro al tavolo. Anche se entrambi sono a disposizione del Presidente, solo quello che lo trasporta prende il nome di Air Force One, il più importante velivolo della Nazione, l’aereo senza obblighi né rotte prestabilite.
Gerald osserva concentrato la traiettoria della zuppiera, irregolare e imprevedibile per via delle deviazioni imposte dai due piccoli manici di ceramica. Quando sta per uscire dalla sua visuale, per non perdere le ultime evoluzioni prima del probabile schianto Gerald Ford, detto Jerry anche dagli amici meno intimi, si sporge sulla sua sinistra, inclinandosi un po’ troppo oltre il baricentro e sfiorando il disastro. Per restare in piedi, o meglio per non cadere dalla sedia, afferra la tovaglia candida ricamata con l’effigie dell’aquila nel mezzo e, strattonandola, rovescia tutto ciò che fino a pochi secondi prima traballava e tintinnava senza troppi rischi. “Clumsy”, goffo, per questo lo chiamano così. Ignoranti, ingrati, avessero fatto un centesimo della fatica che ha fatto lui sul campo, un millesimo delle flessioni e delle sospensioni alla sbarra che hanno reso le sue mani salde come tenaglie e il suo petto duro come la roccia su cui si infrangevano squadre intere di adolescenti. Jerry non è goffo, è solo che da quando ha dovuto immolarsi per il bene del Paese c’è qualcosa che non va con l’equilibrio. Un vero pasticcio, perché Jerry è grande e grosso, un uomo robusto che ha coltivato la sua muscolatura per anni e che ora paga proprio quella mole ipertrofica. All’ultimo istante utile prima della caduta, mentre la povera Betty già grida con gli occhi coperti dalle mani guantate, uno degli uomini della scorta si getta in avanti e riesce a sostenere tutto il peso del Presidente, lo ricaccia con delicatezza ma non senza decisione sulla poltrona. Segue un attimo di silenzio imbarazzato, ma poco dopo è lo stesso Jerry a esplodere in una risata stentorea, potente e aperta. I pochi giornalisti al seguito stanno nella sala attrezzata e non hanno visto nulla, Betty scuote la testa ma sorride, e così tutti tornano alle loro occupazioni mentre il cameriere personale ne ha una nuova e nemmeno troppo gradevole, ripulire il tavolo e il corridoio dai cocci seminati un po’ ovunque.
Le turbolenze sono terminate, l’aereo galleggia placido in quota e tra poco comincerà a scendere verso la destinazione. Il Presidente si alza con uno scatto che vorrebbe dissimulare la goffaggine causa di tanti problemi, ma nessuno gli fa caso. Il sole sopra le nuvole lo ha sempre messo di splendido umore, è una di quelle meraviglie semplici a cui non vuole abituarsi, che non darà mai per scontata.