I guai di American Apparel

Le azioni di American Apparel crollano del 10%, l'azienda ha negozi in tutto il mondo

di Elena Favilli

Le azioni di American Apparel, il grande produttore di abbigliamento statunitense, ieri hanno chiuso con un ribasso del 10%, dopo dopo essere scese fino al 25% nel corso della giornata. Il crollo è arrivato in seguito all’annuncio di Deloitte & Touche di abbandonare l’incarico come revisore dei conti dell’azienda, dopo avere manifestato perplessità sulla gestione finanziaria di American Apparel nel corso del 2009.

Dopo l’apertura del primo negozio nel 2003, American Apparel era cresciuta rapidamente negli ultimi anni aprendone altri 280 tra Nordamerica, Asia e Europa (in Italia è a Roma, a Milano e a Firenze). Il suo brand si è affermato in fretta soprattutto grazie all’abilità di comunicazione e marketing del suo fondatore – il canadese Dov Charney – che in pochi anni ha trasformato l’azienda in una delle icone più conosciute dell’industria dell’abbigliamento americana: capi semplici, colorati, sportivi e campagne pubblicitarie ai limiti del porno.

All’inizio American Apparel si chiamava “American Heavy Apparel Company” ed era una piccola azienda con sede nel South Carolina che vendeva magliette all’ingrosso a stampatori e negozi. Nel 2000 però le cose non andavano molto bene e Charney decise di mettere l’azienda in vendita e trasferirsi in California. Arrivato a Los Angeles incontrò un altro produttore tessile e decisero di riprovarci insieme. Quando Charney si accorse che le sue magliette di cotone colorate iniziavano a piacere molto ai giovani appassionati di fitness che non volevano vestire firmato (gli abiti di American Apparel non hanno nessun logo visibile), ribattezzò il suo target “mondopolitani” (“world-metropolitan culture”) ed ebbe un’intuizione: fare di American Apparel l’icona dell’abbigliamento di Los Angeles, made in Los Angeles. Da allora Charney ha puntato tutto sul fascino dell’idea: come recitano tutte le etichette dei capi, American Apparel produce tutto lì, in uno stabilimento downtown di 74.000 mq e 4.000 dipendenti.

Ma il successo vero è arrivato con le prime campagne pubblicitarie, tutte giocate sull’uso aggressivo e spregiudicato di riferimenti sessuali sempre più espliciti, con foto di modelle giovanissime e seminude spesso fotografate dallo stesso Charney in pose che alcuni hanno definito fashion porn. Molti lo hanno accusato di essere solo un maniaco che si è arricchito sfruttando l’immagine di minorenni anoressiche, ma lui non si è mai scomposto sostenendo che il sesso è semplicemente parte di quello che vende. E ammettendo candidamente di essersi masturbato una volta di fronte a una giornalista che lo stava intervistando.

Poi è arrivata Legalize L.A, la campagna con cui American Apparel si è schierata in favore dell’immigrazione. In una delle pubblicità, una giovane operaia ispanica diceva: «È tempo di dare voce a chi non ha voce. Le imprese hanno paura di parlare con i media di immigrazione perché temono rappresaglie da parte del governo. Ma non possiamo starcene seduti nell’ombra e guardare il governo e i politici strumentalizzare e distorcere questo tema per i loro interessi». Le inserzioni pubblicitarie dicevano implicitamente che American Apparel, come molti altri datori di lavoro statunitensi, si serve di manodopera straniera senza permesso di soggiorno e criticavano esplicitamente l’amministrazione Bush chiedendo all’opinione pubblica se non fosse arrivato il momento di essere sinceri sull’argomento.

Oltre al sesso, infatti, Charney ha un’altra ossessione: fare di American Apparel per Los Angeles quello che Levi Strauss fece per San Francisco all’epoca delle lotte per i diritti civili, quando il marchio di jeans abolì la segregazione razziale nei suoi stabilimenti, molto prima che il governo federale lo rendesse obbligatorio. Finora però non sembra esserci riuscito molto: alcune delle difficoltà economiche che oggi pendono sull’azienda dipendono in parte proprio da problemi legati alle leggi sull’immigrazione. L’anno scorso un’ispezione della autorità federali lo costrinse a licenziare circa 1.500 dipendenti che non furono trovati in regola, costringendolo a ridurre il suo personale di un quarto.