Il Corriere fa le pulci a Di Pietro

Ieri un lungo articolo su Di Pietro e alcuni presunti punti oscuri della sua carriera, dalla laurea agli immobili del partito

Sul Corriere della Sera di ieri Marco Imarisio aveva scritto un lungo articolo sui “silenzi” e le “ambiguità” di Antonio Di Pietro, prendendo spunto dal suo presunto coinvolgimento negli affari della cosiddetta “cricca” di Anemone e Balducci.

Di Pietro disse che aveva spontaneamente scelto di mettere a disposizione degli ex colleghi la sua esperienza di investigatore. I magistrati che seguono l’inchiesta sugli appalti per le Grandi Opere l’avevano convocato come persona informata sui fatti, invece, con tanto di apposito decreto di notifica. C’è differenza. Quel giorno il dettaglio era diventato una nota a margine, le cose che contano in fondo sono altre. Un peccato veniale. Giocare con le parole, dire e non dire, abbellire la realtà, è tutto lecito. Solo che spesso Antonio Di Pietro trasforma le sue piccole furbizie in metodo. Non risponde, non del tutto almeno, oppure parla d’altro, evocando complotti e mandanti occulti. Altre volte, semplicemente, tace. E non si accorge che così facendo fa il gioco dei suoi detrattori, una legione sempre più numerosa.

Imarisio ricostruiva “l’approccio mediatico” di Di Pietro rievocando vecchie questioni come quella del suo titolo di studio – “22 esami in 32 mesi, compresi «mattoni» quali diritto privato, pubblico, amministrativo” e quella sull’inchiesta del Gico di Firenze.

Quella brutta storia poggiava su un tema ricorrente della sua vita, il contrasto tra l’azione pubblica, del magistrato prima e del politico poi, con una condotta privata spesso pasticciata, non priva di ambiguità e zone d’ombra. A metterlo su quella graticola furono le sue relazioni con l’avvocato Giuseppe Lucibello e l’amico costruttore Antonio D’Adamo i quali a loro volta intrattenevano— questa era l’ipotesi di accusa— affari con il finanziere Pacini Battaglia. La rilevanza penale dell’intreccio era pari a zero, ma le personalità pubbliche non si giudicano solo dal proprio casellario giudiziale. Proprio per questo, l’alone di mistero che grava su alcuni punti della biografia dell’ex magistrato nuoce non solo a lui, ma anche alle sue opere.

Poi la storia dei presunti legami con i servizi segreti italiani e americani, le vacanze alle Seychelles e i viaggi negli Stati Uniti.

Dopo la recente pubblicazione di una sua foto che lo ritraeva con il dirigente del Sisde Bruno Contrada, il Corriere lo invitò a un confronto sul tema. Risposta non pervenuta. Sono dettagli, omissioni probabilmente ininfluenti. Ma portano ramoscelli da ardere a chi sostiene l’inverosimile tesi che Mani Pulite sia stata guidata a tavolino dall’intelligence Usa. Creano un danno ad una pagina importante della storia italiana, comunque la si giudichi, della quale Di Pietro è giustamente orgoglioso.

Oggi Di Pietro risponde con una lunga lettera, richiamo in prima pagina e poi tutta pagina 11, che affronta punto per punto gli argomenti esposti dal giornalista del Corriere della Sera e allega per ogni punto una vasta documentazione giudiziaria. Per prima cosa il leader dell’Italia dei Valori nega di essere stato convocato dai magistrati di Firenze. Poi affronta la questione del titolo di studio – “non è affatto vero che io mi sia laureato in modo anomalo” – e della questione Gico: Di Pietro nega di aver ricevuto alcun favore, ma lo stesso Imarisio ricordando i fatti aveva detto che la vicenda processuale aveva eliminato ogni riferimento all’ex pubblico ministero. Smentiti anche i presunti rapporti con i servizi segreti, si arriva alla questione di questi giorni, relativa agli immobili del partito e ai presunti rapporti con Balducci.

Non è vero che io abbia fatto un uso privato dei soldi del partito. Su questa questione, sono già intervenuti ben tre provvedimenti del giudice penale che ha archiviato tutte e tre le volte altrettanti esposti del denunciante Di Domenico per assoluta infondatezza dell’accusa. Non è vero che io abbia mai fatto — con riferimento alle proprietà immobiliari di mia proprietà — una commistione tra patrimonio mio personale e patrimonio del partito Italia dei Valori. Allego, al riguardo, la sentenza del Tribunale di Monza n.ro 760/10 del 2 marzo 2010 che condanna il quotidiano Il Giornale, il direttore dell’epoca Mario Giordano e il giornalista Chiocci a risarcirmi, con 60.000 euro, il danno per le falsità e le diffamazioni pubblicate il giorno 4 agosto 2008 con un dossier intitolato: “Di Pietro ha investito 4 milioni di euro in case, ecco il suo patrimonio”.

Di Pietro prosegue, affermando di non aver fatto un “uso non associativo” dei soldi del partito e di non avere “acquistato case tramite “prestanome”, nel senso dispregiativo del termine”. Segue la risposta di Marco Imarisio, anche questa punto per punto.

Ringraziamo l’onorevole Di Pietro, per la risposta sollecita e cortese e per la copiosa documentazione giudiziaria allegata a sostegno delle sue tesi. Tuttavia, la biografia di un uomo politico come lui non si basa solo sulla verità giudiziaria. E’ proprio questo lo spirito e l’intenzione dell’articolo al quale si riferisce l’onorevole: ci sono comportamenti sui quali sarebbe meglio spiegarsi in modo definitivo. Con parole chiare, non con stralci di sentenze.

A tal proposito: l’onorevole è stato convocato dai magistrati di Firenze, quindi non si era «presentato spontaneamente». Non abbiamo mai detto che si sia laureato in modo «anomalo», ma che i suoi silenzi su alcuni aspetti di questa vicenda hanno lasciato spazio a «illazioni e falsità». Sull’inchiesta di Brescia abbiamo scritto chiaramente del non luogo a procedere deciso dai giudici. A lasciare perplessi furono alcune sue frequentazioni e comportamenti, mai del tutto spiegati. Non abbiamo scritto che l’onorevole Di Pietro abbia avuto a che fare con i Servizi. Su questo tema il leader dell’Italia dei Valori ha dato più versioni, non tutte univoche. Sono documentabili anche le interviste nelle quali viene negata l’esistenza di viaggi americani che poi si sono rivelati veri. Non abbiamo scritto che Di Pietro abbia fatto uso privato dei soldi del partito. Ci siamo limitati a riportare il fatto (non smentito) di avere affittato al partito case di sua proprietà. Sul presunto «uso non associativo» c’è ancora una inchiesta aperta a Roma, ma comunque, anche qui, non abbiamo sostenuto tale tesi. È vero, «prestanome» può essere dispregiativo. Ma l’acquisto tramite altra persona di un immobile inibito ai parlamentari e finito nella disponibilità dell’onorevole rientra tra quei comportamenti che avrebbero bisogno di essere spiegati meglio, non solo con le carte giudiziarie.