Il PD diviso sulle elezioni

Ci sono momenti nei quali l’autolesionismo del Pd si fa davvero incomprensibile. Uno di questi è la corrente discussione, improvvisa e a tratti brusca, sul momento adatto per andare a votare.

Prima possibile, addirittura prima di Natale come vorrebbe il segretario Bersani e a ruota gran parte del gruppo dirigente, appoggiati dall’Unità?
Oppure a legge elettorale riformata (o abrogata per via referendaria) e primi provvedimenti economici presi, tipico lavoro da governo d’emergenza al quale assicurare fin d’ora, sia pure in via ipotetica, l’appoggio necessario? Ieri importanti dirigenti del partito, compresa la presidente dei senatori, si sono scontrati sul tema.
Detto con rispetto: surreale dibattito. Soprattutto perché non c’è nulla che il Pd possa fare, ora, per spingere il quadro politico verso una o l’altra delle due direzioni. Dovrebbe essere chiaro ormai che il destino del governo Berlusconi non è nelle mani delle opposizioni.

La suggestione del governo d’emergenza, d’altra parte, è stata sempre gestita male: poteva essere risolutiva (e convincente per tanti deputati poi scopertisi responsabili) se prima del 14 dicembre 2010 si fosse concretizzata in una proposta visibile, a portata di mano, quindi in grado di garantire una legislatura più stabile di quella che poteva promettere allora Berlusconi. La partita venne giocata in modo leggero e si chiuse come si sa.

Da allora, a ondate, il governo d’emergenza o del presidente si riaffaccia, sempre perché si dà credito a uno Scajola, a un Maroni, a un Pisanu. L’effetto, svanita la prima possibilità dieci mesi fa, è sempre lo stesso: ricompattare i berlusconiani e i leghisti scontenti, che a questo punto si immedesimano nel mantra dei due capi. Resistere, resistere, resistere. Buy time.

Per discutere e dividersi sul sostegno a un governo d’emergenza, il Pd aspetti che il dilemma si ponga, se si porrà. Quanto alle elezioni, chiederle ogni mezz’ora col rischio di averle fra diciotto mesi pare un modo per ingannare il tempo.

Tanto s’è capito cosa succederà in caso di voto ravvicinato: tre coalizioni alle urne col Porcellum, premio di maggioranza al centrosinistra alla camera e un benvenuto stallo al senato che obblighi a fare un governo col Terzo polo. Il presidente del consiglio a quel punto si sceglierà non secondo la Costituzione inventata da Berlusconi, ma secondo quella vigente. Cioè, sul colle del Quirinale.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.