Obesi di paura

Leggendo l’articolo sul signore americano che investe sui domini web legati alle malattie e che ora spera di vendere per 150mila dollari “ebola.com”, mi sono chiesto cosa pensare di lui. Il suo modo di guadagnare è istintivamente sgradevole e lo rende un uomo che auspica il male altrui per ragioni di business: non una persona con cui viene voglia di fare amicizia. Al tempo stesso, fino a che le sue pretese non si scontrano con delle necessità della comunità, si può dire che non faccia male a nessuno e abbia trovato un suo modo di mantenersi e una sua professione nel solco generale del commercio e dell’investimento imprenditoriale. Fatti suoi.

Simili sentimenti li genera la lettura quotidiana dei giornali nei confronti di chi fa i giornali. In misure diverse, la maggior parte dei quotidiani italiani investe infatti quotidianamente sulla speranza che catastrofi, allarmi e paure di ogni scala ottengano l’attenzione dei lettori, facendo crescere il valore del loro prodotto, il terrorismo stampato. Chi fa questi giornali – i loro direttori per primi, e via via a scendere per le gerarchie fino a chi dirà “obbedivo agli ordini” – ritiene che parlare di “clima impazzito” a ogni pioggia e “frase choc” a ogni battuta, per esempio, crei attenzione maggiore da parte dei lettori e maggiore domanda di informazioni: e faccia crescere il valore del prodotto giornale (o telegiornale, eccetera). Ha probabilmente ragione – come ce l’ha il signore di “ebola.com” quando auspica per i suoi affari che l’epidemia non si riduca – ma non è questo il punto. Il punto è che di conseguenza la produzione di paura, meraviglia, enfasi, è diventata il criterio principale della produzione e della confezione di articoli e notizie in questi prodotti di informazione, a dispetto del racconto della realtà: il criterio principale, non esagero.
Inciso: niente di nuovo, eh. Il cinismo meschino dei media moderni è stato raccontato dal giorno dopo che sono nati i media moderni, potete andare a rivedervi tutti i successivi remake di “Prima pagina”. Ma le quantità cambiano anche le qualità.

La domanda che mi facevo stamattina quind è: valgono per i simili comportamenti di chi confeziona i giornali gli stessi giudizi applicati nei confronti del signore di “ebola.com”, una volta constatato che fanno la stessa cosa? Ovvero un senso di sgradevolezza rispetto a questo tipo di lavoro, mediato dal rispetto per una scelta imprenditoriale che come molte altre individua e stimola una domanda per poter rispondere con la propria offerta?
Temo di no.
Perché la produzione di allarme, enfasi, drammatizzazione, al-lupo-al-lupo, se attuata su questa grandissima scala e in questo delicato settore non solo ne stimola la domanda, ma cambia radicalmente un paese intero e la sua cultura. Come americani diventati obesi a causa dell’offerta di cibo poco salubre, o come tabagisti ammalati di cancro perché il mercato del tabacco ha costruito una dipendenza, i fruitori di notizie italiani (tutti, da chi legge i giornali a chi guarda la tv a chi sta su internet) sono stati formati e assuefatti a un modo di pensare per cui ogni singolo evento – o persino la mancanza di un evento – è foriero di drammi o comunque brutte sorprese: sulle scale più diverse, dalla politica alla cronaca allo sport ai grandi eventi naturali ai palinsesti della tv, ogni giorno tutto è “sull’orlo di”, annuncia rivolgimenti, o minaccia tragedie. Che poi – peraltro – non si verificano nella stragrande maggioranza dei casi, ma per allora ne staremo già annunciando altre. E questo ha creato un paese obeso di diffidenza, di paura, di sfiducia, di egoismo, per i cui cittadini ogni cosa è cattiva, infida o almeno sospetta. E ogni singolo fatto non ha più valore di per sé – è sempre troppo poco – ma solo per le cose più spaventose che può annunciare.
E il fatto che siamo diventati tutti “informazione” ai tempi di internet, invece di compensare ed emendare questo andamento dell’informazione professionale, lo ha amplificato: plagiati in questo modo di pensare e di comunicare, lo riproduciamo nei pensieri e fin dentro ai post sui social network. È nelle teste, ormai.

Forse persino in questo post, mi sono chiesto? Credo di no: constato un guaio esistente, non vedo grossi margini di peggioramento, anzi ne vedo enormi di miglioramento.

Insomma, lo dico laicamente, come se fossi uno scienziato che osserva queste cose: nei disastri italiani c’è tuttora, ogni giorno, una rilevantissima responsabilità di chi ne gestisce e produce l’informazione (e le famose tv berlusconiane ne sono appena un pezzo non diverso da altri). Il racconto che si fa della realtà cambia la realtà. Per questo temo che il signore di “ebola.com” sia meno simpatico di molti direttori di giornale – “ho molti amici direttori di giornale” –  ma anche meno pericoloso.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).