Una paginetta.

Premetto che ho quarantaquattro anni e il mio numero di scarpa è il 44.

Ricevo una telefonata. È un tipo importante che conosco per motivi di lavoro, ma con cui non mi sentivo da qualche tempo. Mi dice: “Che fai? Come vanno gli affari? Ti va di tornare in Italia?”.

Non so bene cosa rispondere. Quando c’è da scegliere, anche fosse tra un semplice sì e un semplice no, mi blocco. Non lo faccio apposta. Mi succede lo stesso quando mi trovo al ristorante con un menù tra le mani, o di fronte agli scaffali del supermercato o facendo la fila in un cinema multisala. Ogni possibilità diventa una domanda che si scompone nella mia testa in centinaia di altre domande, cui si accompagnano migliaia di possibili risposte, nessuna apparentemente migliore delle altre.

Quindi, di solito scelgo a caso, come se giocassi alla roulette. In questo frangente decido di puntare tutto su uno squallido: “Beh, dipende”.

Dipende è probabilmente una delle più brutte parole che ci siano in circolazione. Non mi piace perché ha un suono petulante e poi perché gli fa quasi sempre eco un dipende da cosa? da parte del tuo interlocutore, che ti riporta al punto di partenza, con la domanda ancora intatta che ancora più impazientemente aspetta la tua risposta.

E infatti: “Dipende da cosa?”, mi dice il tipo importante. “Soldi? Ruolo? Tipo di contratto?”. Con uno sforzo notevole, mi costringo a non perdermi ancora nelle sabbie mobili delle mie incertezze, e dico: “No, è che sai, ho deciso che se mi muovo da qui, mi muovo solo per cose interessanti, mi sono fatto fregare nel passato dai sol…”.

Il tipo importante m’interrompe prima che io riesca a dire quello che volevo dire. Loro, in effetti, sono importanti perché hanno questa capacità di lasciarti dire solo quello che vogliono sentirsi dire. “È interessante, molto interessante, fidati, mandami una paginetta di quello che hai fatto, esperienze, onori e balle varie, dai, ciao, a presto.”

Una paginetta? Ma che paginetta? Un curriculum vitae? E che si chiede a un quarantaquattrenne un curriculum vitae? Davvero le aziende giudicano ancora le persone che vogliono assumere in base al loro curriculum? Non l’hanno mai letta la poesia “Scrivere un curriculum” di quella donna meravigliosa che era Wislawa Szymborska, quella in cui sarcasticamente dice:

[…] Meglio il prezzo che il valore. E il titolo che il contenuto.
 Meglio il numero di scarpa, 
che non dove va
 colui per cui ti scambiano. […]

I curriculum vitae sono qualcosa di più che una stanca convenzione sociale; sono una follia se ci si pensa, ma a cui siamo così assuefatti da pensare che sia una cosa assolutamente normale. E sono una cosa inutile in partenza: viviamo in un’epoca così veloce nella quale neanche si ha il tempo di scriverla quella paginetta che è già sorpassata prima ancora di arrivare.

Eppure ogni giorno centinaia di migliaia di persone affidano le proprie speranze di trovare un lavoro a questa paginetta con il titolo scritto in latino e utilizzando un linguaggio retorico e involuto; tutta piena d’informazioni che invece di mettere in luce le proprie singolarità, omogeneizzano tutto e tutti in una disperata gara a chi parla più lingue, chi ha fatto più viaggi, chi dimostra più esperienza, chi ha vinto più premi, chi sa usare più programmi software, chi è nato prima dell’altro…

Una serie semi-organizzata di dati da cui non si riesce a distinguere un laureato da un mascalzone. Perché dire quello che si è fatto, non dice quasi niente di chi siamo veramente. Quello che siamo, infatti, è un impasto di quello che abbiamo fatto, quello che avremmo voluto fare e non abbiamo fatto e quello che abbiamo ancora intenzione di fare.

Una paginetta non basta. Ma neanche un paginone.

Diamoci da fare per inventare nuovi modi di presentarci, che diano la possibilità ai datori di lavoro di sentirsi obbligati a darcelo quel lavoro e di darci quello giusto per noi. Facciamo in modo che i cacciatori di teste si mettano veramente a caccia di teste, e non di ciclostili umani. Chissà che il mercato del lavoro non diventi un posto più interessante da frequentare.

Già è difficile trovare lavoro; non rendiamocelo impossibile cercandolo nel modo sbagliato.

Guardo la cornetta del telefono, che ho ancora in mano. Il tipo importante ha riattaccato almeno venti domande fa. Ma se fosse ancora al telefono, so già cosa mi direbbe: “Lorenzo, sei il solito rompiscatole. Ti ho chiesto una paginetta, mica la Divina Commedia; ma se proprio vuoi startene dove stai, fai pure.”

Caro tipo importante, ecco la paginetta che mi avevi chiesto. È quest’articolo. Spero che sia sufficiente a convincerLa di essere la persona giusta per il lavoro che mi sta offrendo. In attesa di un suo gentile riscontro, la saluto calorosamente. Lorenzo.


Lorenzo De Rita

Vive ad Amsterdam, dove dirige The Soon Institute - un collettivo di inventori che sperimentano e sviluppano prototipi per la società che verrà. Ha aperto recentemente una casa editrice che pubblica libri difficili ed è il co-fondatore di jointhepipe.org