Quando è finito il governo Letta

Nella mente ho un istante preciso a cui collego la caduta del governo Letta. È stato durante la riunione della direzione nazionale del 6 febbraio: non quella in cui il Partito ha sfiduciato Letta, ma quella precedente, convocata per discutere della legge elettorale e delle riforme istituzionali. Avevo appena finito di parlare e Sandra Zampa, dopo il mio intervento, ha dato la parola proprio a Enrico Letta. Ci siamo incrociati mentre io lasciavo il podio e lui si avvicinava. È stato, credo, l’ultimo momento in cui l’ho visto in sella.

Avevo parlato pochi secondi prima, appunto, dopo la relazione del Segretario e dopo gli interventi di Epifani e Gentiloni. Avevo detto che non era tempo di staffette (una classica disciplina delle olimpiadi estive e noi siamo in tempo di olimpiadi invernali, avevo detto) ma era tempo che il governo desse delle risposte, che fosse all’altezza della crisi del Paese. E che facesse cose che lo rendessero più simile a noi, allo spirito del PD, perché potessimo sentirlo nostro, quel governo. Per esempio – se proprio lo si doveva fare – andando a Sochi ma senza essere così passivi e incapaci di articolare uno straccio di difesa dei diritti umani in Russia. O, per esempio, evitando di costituire la Presidenza del Consiglio a difesa della Fini-Giovanardi durante il giudizio di legittimità costituzionale di quella legge ignobile, come purtroppo la Presidenza del Consiglio aveva purtroppo stabilito di fare.

Finito di parlare, mi sono riavviato verso il mio posto e lungo il percorso mi sono incrociato con Letta che si apprestava a prendere la parola. Ci siamo fatti un cenno di saluto, ed è stata l’ultima volta che l’ho visto Presidente del Consiglio.

Sì, perché a quel punto mi sono seduto e ho cominciato ad ascoltarlo. Volevo capire se mi avrebbe risposto, se avrebbe spiegato di Sochi, della Fini-Giovanardi. Delle risposte da dare al Paese. Forse del suo programma, quello che avrebbe fatto “cambiare di passo” al governo. Chissà, forse di una nuova squadra, di un nuovo esecutivo. La richiesta di un appoggio convinto del partito per poter governare il paese fino alla fine dell’anno almeno. E così, mi sono concentrato e ho ascoltato. E poi ho aspettato. Perché passavano i minuti e non arrivava nulla di quello che pensavo di ascoltare. Passati i previsti 7, poi 10, poi 14 minuti di intervento in cui il Presidente del Consiglio non ha detto quali fossero i suoi piani, i progetti per il futuro. “Non voglio star qui a galleggiare” e fine dell’intervento. Applausi tiepidi. Stop. Quando è sceso a sua volta dal podio, Enrico Letta non era più il Presidente del Consiglio.

Lo so adesso che ho riavvolto il film della mia memoria e che l’ho riguardato mille volte. Ma in quel momento, va da sé, non lo sapevo. Mentre Letta passava la parola all’oratore successivo più che altro mi chiedevo se quell’intervento era sembrato così incredibilmente – e significativamente – vuoto solo a me o anche ad altri. Se ero io a essere forse distratto dall’aver parlato solo poco prima, o se invece quel sostanziale silenzio in un momento nel quale la presenza forte del Presidente del Consiglio era richiesta come una necessità inderogabile e categorica aveva colpito anche altri.

La risposta me la sono data rapidamente. Prima è intervenuto Fassina chiedendo di anticipare la data della Direzione chiamata a discutere del rapporto tra partito e governo dal 20 al 13 di febbraio. E poi c’è stato l’intervento di Cuperlo. E cosa ha detto Cuperlo? Che così non si reggeva più. E che c’erano solo due strade: la prima è che questo governo, contro il quale si scagliano Confindustria e i sindacati, che arranca e che sta al minimo della popolarità ripartisse veramente. Ma poi (siamo al minuto 2 e 53 del suo intervento) si è chiesto, e notare la pesante alternativa posta dalle due interrogative: “Ma Letta lo vuole fare? È in grado di farlo? Altrimenti sia il segretario ad assumere un’iniziativa chiara, a portare qui in direzione nazionale una posizione e troverà la responsabilità e la collaborazione da parte di tutte le componenti del partito”. Mi sono stropicciato occhi e orecchie e ho capito che lo schema Renzi al partito e Letta al governo – lo schema che avevo sostenuto io stesso parlando pochi minuti prima – era finito lì.

E infatti, da lì, quelle che erano sembrate soltanto indiscrezioni giornalistiche sono montate come la panna, portandoci in pochi giorni alla direzione del 20 e all’epilogo che tutti conosciamo. È stato in quel momento che mi sono reso conto che non aveva più senso sconsigliare a Renzi di prendere in mano il governo e che quella era l’unica concreta via d’uscita, a quel punto. La minoranza del partito aveva scaricato Letta e invitava Renzi a giocarsi l’osso del collo, le parti sociali e l’opinione pubblica invocavano un cambiamento forte, due cose che Matteo Renzi, chi lo conosce lo sa, non avrebbe certamente avuto timore di affrontare.

Spazziamo subito via una questione che aleggia su tutta la vicenda, che il problema qui sia che, caduto Letta, si sarebbe dovuto andare immediatamente alle elezioni. Renzi lo ha detto bene, questa soluzione sarebbe andata meglio a lui che all’Italia (e infatti non escludo che ci sia ancora una possibilità che questo accada). Dovessimo andare a votare con la legge elettorale consegnataci dalla Consulta, ci ritroveremmo infatti tra quattro o cinque mesi punto e daccapo: con un parlamento ingovernabile e un altro governo di larghe intese. Con l’impossibilità di andare a votare di nuovo, con 4 o 5 mesi di crisi economica affrontati senza un governo che governa, e con una specie di nuova DC a governare per i prossimi 50 anni con M5S a fare opposizione di sistema. Dopo le elezioni col proporzionale, con ogni probabilità, Renzi si sarebbe trovato a fare lo stesso governo che cercherà di fare in questi giorni, con la medesima maggioranza. Nessuno avrebbe potuto accusarlo di nulla, ma avrebbe fatto perdere 4 o 5 mesi all’Italia e avremmo di fatto detto addio al bipolarismo e all’alternanza.

Ora sta a noi. A Matteo Renzi e al suo partito. Sta a noi dimostrare che questa fase, aperta in modo così rocambolesco, rappresenta comunque un’occasione irripetibile per il nostro paese. Il cambiamento, la semplificazione e la sburocratizzazione che Renzi ha in mente sono un’occasione straordinaria per l’Italia. Il suo governo lavorerà con la decisione che tutti conosciamo in quella direzione, e senza compromessi. Bisognerà valutarlo per le cose che farà. Tutto il resto rischia solo di essere un modo per fare il gioco delle tante forze che lavoreranno per lasciare tutto, ancora una volta, come è sempre stato.

Ivan Scalfarotto

Deputato di Italia Viva e sottosegretario agli Esteri. È stato sottosegretario alle riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento e successivamente al commercio internazionale. Ha fondato Parks, associazione tra imprese per il Diversity Management.