Indignarsi meno

Indignarsi in Italia fa male alla salute. In Francia parrebbe di no, dato lo strepitoso successo – oltre 850.000 copie in pochi mesi – del libriccino Indignez vous! di Stéphan Hessel, 93enne ex partigiano nato a Berlino. È anche vero che i francesi mangiano tutti quei formaggi senza ingrassare e fumano senza farsi troppo problemi. A loro di noi piacciono Nanni Moretti e Paolo Conte. A noi di loro piace Zidane. Senza contare che da lungo tempo ci stiamo reciprocamente sulle palle.
Cazzate a parte, il libro di Hessel uscirà in Italia a metà febbraio e già da qualche settimana il titolo del pamphlet viene usato come risposta necessaria all’attualità: che si tratti di commentare i festini di Berlusconi o i suoi attacchi alla magistratura la parola d’ordine è la stessa, “Indignatevi”! Il fatto che l’indignazione italica sia più un spesso un vizio che una virtù oltre che un buon modo per “stancarsi” mantenendo lo status quo è stato ben raccontato da Ennio Flaiano nel suo viaggio attraverso Il Paese dei Poveri: lui lo chiamava cinismo civico e lo metteva di diritto tra i comportamenti di quel conformismo di cui Guglielmo Giannini e il suo Fronte dell’Uomo Qualunque furono le bandiere.

Tornando a noi, a me e ai miei amici, posso solo dire che la sera quando non abbiamo niente da fare andiamo al bar e ci indignamo. Qualcuno guarda ancora le ragazze, ma i più di noi si indignano, bevono qualche bicchiere e tornano a casa. Ci indignamo e ci annoiamo, tanto che ho quasi smesso di uscire. Ad alcuni questa cosa, l’indignarsi, fa sentire meglio. Pensate a Facebook e ai post che ci sono: più della metà dello spazio è occupato dall’indignazione. Per non parlare degli editoriali tromboni, dei microfoni aperti alle radio, di molti interventi in tv: Indignez vous!
Una boccata d’ossigeno l’ho presa l’altro giorno parlando con Nader Boumaiza, un ragazzo tunisino di trent’anni. Lui in Italia ci vive e così pure i suoi genitori: sta studiando per prendere una qualifica professionale e tra poco dovrebbe iniziare uno stage di lavoro. Dico dovrebbe perché sabato scorso è partito per la Tunisia: «Vado, devo andare, non posso rimanere qui mentre tutto il mio popolo sta lottando per il proprio futuro. Devo partire al più presto, io amo il mio paese e il mio paese ha bisogno di me». Alla mia cretina domanda, vittima delle cattive letture di questo periodo, su quanto fosse indignato per come venissero trattati i suoi coetanei in Tunisia, ha risposto: «Indignarsi? A cosa serve adesso, con quello che sta succedendo, indignarsi? Io vado lì».

Caro Nader, come darti torto. Mi indigno da tempo e sto sempre peggio.
Senza entrare nel merito della questione politica tunisina – e senza far paragoni tra la guerra del pane e i casini del Premier – , Nader è un mix ben riuscito tra il romanticismo del film Noi Credevamo, il guevarismo tamarro di Jovanotti e la simpatia guascona di Zidane: è una mosca bianca che se ne frega dell’indignazione nazional popolare, non difende con la retorica quello che dice ma custodisce gelosamente il suo sogno di cambiamento. L’indignazione lasciamola ai vecchi come Hassel che ne hanno tutto il diritto, ma noi meritiamo di meglio. E migliori letture.

Giovanni Robertini

Vive a Milano. Come autore televisivo ha fatto parte del gruppo di brand:new e di Avere Ventanni per Mtv; de L'Infedele e di Invasioni Barbariche (dove si trova ora) per La7. Ha pubblicato il libro "Il Barbecue dei panda - L'ultimo party del lavoro culturale"