Cinque cose sull’equo compenso per giornalisti

In questi giorni nel mondo del giornalismo si è parlato parecchio dell’accordo sull’equo compenso per i giornalisti collaboratori (anche se gli altri quando sentono equo compenso pensano ad un’altra cosa). Si tratta di un impegno preso dal sindacato dei giornalisti (FNSI) e da quello degli editori (FIEG) per inserire nel prossimo contratto nazionale un tariffario minimo per i giornalisti assunti con contratti di collaborazione coordinata e continuativa (i cosiddetti co. co. co.). Ad esempio, il collaboratore che scrive per un quotidiano un minimo di dodici articoli in un mese (uno ogni tre giorni) da almeno 1.600 battute ha diritto a un minimo di 250 euro lordi al mese, cioè 3 mila euro lordi l’anno (per capirci: 1.600 battute sono meno dei primi tre paragrafi di questo post).

L’accordo è stato duramente criticato da molte organizzazioni di precari e dal presidente dell’Ordine dei giornalisti, l’unico a votare contro nella riunione in cui è stato firmato. C’è anche una petizione su Change.org per chiedere di cambiare l’accordo e alzare il compenso minimo. Alcune organizzazioni stanno cercando di organizzare una manifestazione a luglio. Non voglio imbarcarmi nella discussione se 3 mila euro lordi per scrivere 1.600 battute ogni tre giorni sono tanti o pochi. Mi limito a far notare che si tratta di un minimo che in molti casi è, semplicemente, fuori mercato. Date un’occhiata a questa tabella che mostra i redditi annui dei Co. co. co. giornalistici fino al 2011.

Cococo

Su più di 10 mila contratti di collaborazione, circa 3.400 erano inferiori a un lordo di 3.000 euro l’anno (e se date un’occhiata vedrete che il numero di chi prende così poco è diminuito nel corso degli anni). L’accordo sull’equo compenso, quindi, potrebbe migliorare la situazione al massimo di un terzo dei collaboratori (ricordatevi che c’è un numero minimo di articoli da realizzare per rientrare nei compensi minimi: non è detto che tutti questi tremila scrivano, ad esempio, dodici articoli al mese per un quotidiano). Ma l’accordo non toccherà minimamente i restanti due terzi che prendono già di più (e senza nessuno bisogno di tariffari minimi). Secondo chi ha protestato in questi giorni, la soluzione è alzare ancora di più i minimi, in modo da migliorare la situazione di quasi tutti questi diecimila giornalisti. Io credo che questa sia la risposta sbagliata: protestare contro questo accordo serve soltanto a sprecare il pochissimo potere contrattuale della categoria per una cosa che non ne migliorerà affatto la situazione. Ecco, spiegato in cinque punti, perché ho questa opinione e per cosa secondo me la categoria si dovrebbe battere (che poi, a ben guardare, è quello per cui secondo me dovrebbero battersi tutti i precari).

Primo
Chiunque di voi abbia fatto un giro in un paio di redazioni sa bene qual è la situazione dell’editoria italiana: c’è una crisi senza precedenti, il mercato della pubblicità è crollato e la tiratura dei periodici non fa che calare. I giornali vanno in stato di crisi uno dopo l’altro, mentre le società editrici sono costrette ad aumenti di capitale o altre operazioni rocambolesche per cercare di salvarsi. I soldi non ci sono: mettiamocela via. La torta è quella e ce la siamo già spartita. Il vero problema è che, ad occhio, quattro quinti delle risorse finisco ai giornalisti assunti e tutelati, il resto se lo dividono tutti gli altri. Si chiama “mercato del lavoro duale” ed è caratterizzato dalla divisione tra gli “insider” iper-protetti e gli “outsider” senza garanzie: è una cosa che gli economisti conoscono molto bene (e che in Italia è molto diffusa). Temo che discutere una qualunque soluzione che non cerchi di incidere su questo problema sia semplicemente tempo sprecato.

Due
Anche fosse vero che gli editori infilano i soldi nel materasso pur di non alzare gli stipendi, difficilmente l’ennesima infornata di nuove regole cambierà qualcosa. Esistono decine di modi per pagare un giornalista meno di qualsiasi minimo restando entro i confini della legge (o comunque in una confortevole zona grigia). Esistono altre centinaia di modi per farlo violando la legge. È quello che temo accadrà ad alcuni di quei 3.400 collaboratori a cui la nuova legge potrebbe migliorare la situazione. Semplicemente, quando scadrà il loro contratto, cominceranno ad essere pagati con altre forme che non richiedono minimi (partite IVA, ritenute d’acconto, caro vecchio nero senza fattura: la fantasia non ha confini). Se pensate che le regole siano la soluzione allora non ne servono di nuove. Serve un poliziotto dentro ogni redazione.

Tre
La categoria dei giornalisti freelance non conta niente e non otterrà mai quello che chiede. Sono pochi, poco organizzati e senza potere contrattuale. Inoltre, provate a considerare questo: se le dimensioni della torta sono fisse, qualunque legge che dovesse davvero portare a un aumento della fetta per gli outsider incontrerà l’opposizione degli insider (una piccola prova di questa opposizione: come abbiamo visto il sindacato dei giornalisti ha votato a favore dell’accordo sul compenso minimo).

Quattro
Se per un miracolo la mobilitazione dei giornalisti precari dovesse produrre qualche risultato (e ripeto: per miracolo) allora sarebbe bene che producesse un risultato davvero utile. Mi rivolgo direttamente ai miei colleghi: provate a immaginare che per un caso del destino la protesta riuscisse a far approvare una legge che triplica il minimo dell’equo compenso. Domandatevi quante probabilità ci sono che la nuova legge migliori la vostra situazione. La risposta è molto poche e lo sappiamo bene tutti (vedi punto uno e due).

Cinque
Ci sono alcune cose concrete di cui secondo me il mondo del giornalismo avrebbe molto più bisogno rispetto a un tariffario minimo che in pochi cercheranno di rispettare. Ecco alcuni esempi:

Flessibilità: è difficile che nel 2014 le aziende editoriali possano continuare a permettersi di pagare gli stipendi e a mantenere le garanzie che hanno concesso in passato ai loro dipendenti. A volte, soprattutto in alcuni grandi giornali, ci sono stati veri e propri casi limite e ai giornalisti sono stati concessi contratti davvero esotici. Inoltre, attualmente, la mobilità per gli assunti è soltanto verso l’alto: si sale di grado, aumentano stipendi e responsabilità, ma – indipendentemente da errori o manifesta incapacità – indietro non si torna mai. A volte, persino far cambiare mansione a un giornalista è difficilissimo (e provate a pensare a che razza di problema può essere in un momento come questo in cui l’informazione sta cambiando radicalmente).

In parte, il problema si sta risolvendo in maniera “naturale”: i giornalisti con i contratti migliori vanno in pensione e vengono sostituiti da giovani senza alcuna garanzia. Questo processo, però, andrebbe regolato. Bisognerebbe trovare una via di mezzo in cui le garanzie del passato vengono ridotte, ma ne vengono concesse di nuove a chi al momento non ne ha nemmeno una. Cambiare questi aspetti è difficilissimo e non riguarda soltanto i giornalisti (quasi tutto il mercato del lavoro italiano soffre di questi problemi). Ugualmente, però, è questa la direzione verso la quale bisognerebbe spingere.

Abbassare le tasse all’editoria: le imprese editoriali soffrono della tassazione e dell’eccesso di adempimenti e burocrazia di tutte le altre imprese italiane. Qualunque legge che migliori questa situazione beneficerà anche la stampa. Volete qualcosa di più specifico? Eccovi accontentati: nel sistema fiscale che riguarda l’editoria ci sono delle storture semplicemente incomprensibili. L’IVA per i prodotti editoriali di carta (libri e giornali compresi) è al 4 per cento. Basta che il prodotto sia solo online e la tariffa quintuplica e passa al 22 per cento. I nuovi posti di lavoro nel mondo del giornalismo saranno creati su internet: cominciamo a rendere le regole uguali per tutti, sia carta stampata che online.

Finanziare la stampa: i finanziamenti all’editoria sono stati pesantemente criticati negli ultimi anni. È legittimo ritenere che lo stato non debba sovvenzionare la stampa, ma bisogna anche sottolineare che tra i paesi europei l’Italia è uno di quelli in cui la spesa per abitante in sovvenzioni alla stampa è più bassa. Aumentare i finanziamenti, ad esempio sotto forma di sconti fiscali, è un modo per dare un po’ di respiro a tutto il settore.

 

Davide De Luca

Giornalista. Ho scritto per l’Arena di Verona e per l’Agence Europe di Bruxelles. Ho collaborato ad alcuni libri d’inchiesta su CL e la finanza cattolica. Mi piacciono i numeri e l’economia e cerco di spiegarli in modo semplice. Su Twitter sono @DM_Deluca