Beppe Grillo, Bruno Vespa e il fact checking

Ogni volta che scrivo nei titoli di questo blog “Grillo”, il numero di click aumenta in maniera esponenziale. Ai miei lettori piace molto leggere smentite alle sue affermazioni e in molti oggi si aspettano un articolo dedicato alla puntata di Porta a Porta di ieri. Resteranno delusi. Non è che Grillo non abbia detto balle, anzi. Ne ha dette parecchie delle solite già ampiamente smentite: la storia dei 60 miliardi di corruzione oppure la faccenda del Fiscal Compact che ci costerà 50 miliardi l’anno. Ne ha detta anche qualcuna di nuova: il fondo americano BlackRock che possiederebbe il 64 per cento del Monte dei Paschi di Siena (in realtà ne possiede il 3,23 per cento).

Per una volta credo che dall’intervista sia uscito qualcosa di più importante delle balle. Una specie di questione etica che possiamo riassumere in una domanda semplice e un po’ brutale: è eticamente corretto intervistare Beppe Grillo?

Prima di cominciare a cercare una risposta (che io non penso di avere) facciamo un passo indietro. In molti oggi diranno che Vespa non era preparato a sufficienza per controbattere il fiume di inesattezze di Grillo. Ma esiste qualcuno che avrebbe saputo fare di meglio? Forse sì, ma non di molto. Grillo era carico come una molla, parlava ad alta voce, faceva battute, rideva, guardava in camera: era inarrestabile. Come ha scritto oggi Mario Seminerio sul suo blog: «Cercare di fare analisi razionali o anche solo debunking, di fronte al messaggio di Grillo, è puramente irrazionale oltre che inane».

Soffermatevi un po’ su questo pensiero. Non pensate a Grillo o Vespa. Spostiamo questo problema nell’universo astratto delle questioni etiche. Immaginatevi questa scena con i protagonisti che preferite: un’intervista ad un politico in cui vengono dette così tante balle che è impossibile correggerle tutte. Ecco una bella gatta da pelare: se il mio dovere di giornalista è raccontare la realtà con il più ragionevole grado di veridicità di cui sono in grado, sono tenuto a intervistare qualcuno che non posso controllare? È eticamente corretto che io decida di non intervistarlo e di comunicare i suoi contenuti soltanto mediandoli (registrando l’intervista e tagliandola, facendo un articolo e scegliendo cosa scrivere, cosa tralasciare e cosa smentire)?

Conosco l’obiezione “all’italiana” che si fa in questi casi: il giornalista non deve fare scelte, ma solo raccontare ciò che succede e che è di interesse pubblico. In un certo senso lo ha detto anche Vespa ieri sera, rivolgendosi a Grillo e a tutti i politici passati dal suo studio: «Io vi lascio la responsabilità di quello che dite». È molto comodo pensare che noi giornalisti non abbiamo responsabilità, ma è anche molto falso. Il giornalista deve affrontare centinaia di decisioni ogni giorno. È il giornalista che decide cosa è di interesse per il pubblico, tanto per cominciare. È il giornalista che decide come organizzare la notizia: cosa mettere nel titolo, cosa spiegare bene, cosa lasciar correre. È il giornalista che sceglie come posizionare quella notizia: in apertura, in basso, nascosta o in evidenza. Queste scelte cambiano la percezione della realtà dei nostri lettori e per questo comportano un’elevata responsabilità dei giornalisti nei confronti del pubblico.

È difficile sopravvalutare quanto sia grande questa responsabilità e quanta parte del dibattito pubblico, della qualità della classe politica, delle sorti di riforme e governi siano decise da noi giornalisti (a volte, tramite meccanismi di cui noi giornalisti non siamo nemmeno consci). La stampa è un pilastro della democrazia e per questo i giornalisti sono vincolati da regole etiche e professionali che non si applicano ai cittadini comuni (il fatto che queste regole siano rispettate o meno è del tutto irrilevante per questo discorso). Niente di nuovo: sono cose che fanno parte da molto tempo della cultura giornalistica anglosassone (e che, non a caso, in Italia impariamo – quando le impariamo -dalle serie televisive americane). Insomma, noi giornalisti portiamo sulle spalle una bella responsabilità. Se durante un’intervista veniamo travolti dalla foga dell’intervistato e non riusciamo a fare un buon lavoro, allora è tutto il paese che ci rimette.

Più ci penso, però, più mi rendo conto che questa responsabilità non è limitata soltanto alle interviste. Proviamo ad immaginare il nostro politico di fantasia che dichiara che alle ultime elezioni ci sono stati dei brogli elettorali. Non ha prove, ma lo grida ai comizi e lo dice durante le conferenze stampa. Noi giornalisti siamo obbligati a farci il titolo con cui apriremo il giornale e a trasformare il suo discorso nel grande tema di dibattito della settimana? Cambiamo ancora la domanda da cui siamo partiti e trasformiamola così: un giornalista è tenuto a dare rilevanza a quelle che sa essere delle balle, magari nascondendosi dietro un virgolettato? Dicendo che in fondo è stato il politico a dirlo e lui non ci può fare niente?

Forse la cosa eticamente più corretta, a volte, è non dare troppo spazio a certi personaggi e certe dichiarazioni. Forse dovremmo utilizzare di più il nostro buon senso e renderci conto che a volte facciamo un pessimo servizio a questo paese se mettiamo al centro del dibattito pubblico personaggi che sappiamo di non poter controllare e temi che sappiamo essere falsi ed inutili (anche se magari facciamo un ottimo servizio agli ascolti del nostro programma). Forse, almeno dal punto di vista etico, la risposta è più semplice di quanto si potrebbe pensare. Basterebbe soltanto che noi giornalisti ci ricordassimo che non abbiamo il dovere di raccontare sempre tutte le sciocchezze che si dicono.

 

Davide De Luca

Giornalista. Ho scritto per l’Arena di Verona e per l’Agence Europe di Bruxelles. Ho collaborato ad alcuni libri d’inchiesta su CL e la finanza cattolica. Mi piacciono i numeri e l’economia e cerco di spiegarli in modo semplice. Su Twitter sono @DM_Deluca