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  • Giovedì 30 novembre 2017

Chi era Slobodan Praljak

L'uomo che si è suicidato ieri bevendo veleno al Tribunale internazionale dell'Aia era stato un intellettuale, un regista e un politico, oltre che un criminale di guerra

Alcuni cittadini bosniaci mentre assistono al suicidio di Slobodan Praljak (AP Photo/Amel Emric)
Alcuni cittadini bosniaci mentre assistono al suicidio di Slobodan Praljak (AP Photo/Amel Emric)

Ieri pomeriggio l’ex generale croato Slobodan Praljak è morto dopo aver bevuto una fiala di veleno al Tribunale internazionale dell’Aia, che lo aveva appena condannato per crimini di guerra. Il suo gesto lo ha reso immediatamente un martire del nazionalismo croato, la causa che 30 anni fa lo portò ad abbandonare la carriera di regista teatrale e televisivo per arruolarsi volontario nell’esercito: ieri notte migliaia di persone hanno vegliato al gelo, nelle piazze e nelle strade del paese, stringendo in mano candele e fotografie di Praljak con la sua divisa da generale. Secondo il presidente croato, Andrej Plenković, Praljak è divenuto un testimone della «profonda ingiustizia morale» che il Tribunale ha commesso nei confronti «del popolo croato».

Plenković respinge le conclusioni a cui è giunto il Tribunale, secondo cui nei primi anni Novanta il governo croato e il suo esercito misero in piedi “un’impresa criminale congiunta” per uccidere o deportare gli abitanti musulmani dell’area della Bosnia che avrebbero voluto annettere alla Croazia. Il conflitto durò 11 mesi, causò migliaia di morti e decine di migliaia di profughi. Il fatto che i croati poco dopo rinunciarono all'”impresa”, e si allearono con i bosniaci musulmani contro la Serbia, ha fatto per lungo tempo dimenticare questi crimini: nell’immaginario collettivo, i serbi di Slobodan Milosevic e Radovan Karazdic sono rimasti gli unici responsabili di quel conflitto. Ma il gesto di Praljak ha avuto anche un altro risultato, che a lui sarebbe stato probabilmente meno gradito: ha riportato quei crimini a lungo dimenticati sulle prime pagine di tutti i giornali.

Praljak nacque il 2 gennaio del 1945 a Čapljina, una città a maggioranza croata in quella che di lì a poco sarebbe divenuta la Repubblica socialista di Bosnia ed Erzegovina, la più eterogenea e turbolenta delle sei repubbliche che componevano l’ex Jugoslavia socialista. Suo padre era un funzionario dell’agenzia di sicurezza nazionale e questo gli permise di studiare nelle migliori università del paese. Nella sua biografia, Praljak ha raccontato di aver preso tre lauree: una in Ingegneria elettronica, una in Filosofia e sociologia e infine un diploma all’accademia di arte drammatica. Dopo la laurea lavorò per qualche anno come professore in un liceo tecnico per poi diventare un artista a tempo pieno.

I territori in cui era divisa la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia prima della dissoluzione nel 1992.

Negli corso degli anni Settanta e Ottanta divenne direttore dei teatri di Zagabria, di Osijek e di Mostar. Diresse serie televisive, documentari e film. In quegli anni sposò Kaćuš Babić, ex moglie di Goran Babic, uno dei poeti più importanti dell’epoca. In breve divenne una delle persone più note nell’ambiente artistico e culturale di Zagabria ma quando negli anni Ottanta morì il dittatore della Jugoslavia, Tito, e l’unità della Federazione iniziò a scricchiolare, Praljak scoprì un’altra passione: la politica.

Praljak era un intellettuale, come erano intellettuali molti degli altri leader politici e militari che commisero crimini di guerra nell’ex Jugoslavia. Radovan Karadzic, che sarebbe divenuto leader dei serbo-bosniaci responsabili del massacro di Srebrenica, era uno psichiatra e un poeta che aveva studiato a New York. Quando negli anni Ottanta con la morte di Tito divenne chiaro a tutti che la Federazione Jugoslava aveva i giorni contati, furono intellettuali come Praljak a pensare che fosse compito loro guidare i compatrioti alla creazione di uno stato moderno e indipendente, richiamandosi e a volte inventando una tradizione nazionale che i loro paesi, da sempre sottoposti al dominio di potenze straniere, non avevano mai avuto modo di esprimere appieno.

Così nel 1989 Praljak partecipò alla fondazione dell’Unione Democratica Croata, una formazione nazionalista che avrebbe dominato la vita politica del paese per il decennio successivo. Nel 1990 il capo del partito, Franjo Tuđman, divenne presidente della Croazia. L’anno successivo organizzò un referendum per l’indipendenza e, dopo che l’80 per cento degli elettori si espresse per il Sì, dichiarò l’indipendenza del paese. La Serbia, che dominava quel poco che restava della Federazione jugoslava, rispose attaccando la Croazia, che aveva creato un esercito raffazzonato in pochi mesi acquistando segretamente armi dall’Ungheria. Praljak allora abbandonò la sua vita bohémien per arruolarsi da volontario nell’esercito. Con sé portò un intero battaglione, formato dagli artisti e dagli intellettuali di Zagabria.

Slobodan Praljak, in divisa da generale durante la guerra (Facebook)

In quei mesi l’esercito croato era un’istituzione nuova di zecca, senza una storia e senza una tradizione, costruita da migliaia e migliaia di volontari, accorpati in qualche modo attorno alle poche unità di polizia para-militare controllate dal governo croato. E c’erano pochi croati nell’esercito jugoslavo dove, tradizionalmente, i ruoli principali erano riservati ai serbi. Così, grazie alle sue connessioni politiche, appena arruolato, Praljak fu subito nominato generale. Immediatamente fu inviato al confine con la repubblica di Serbia, da dove l’esercito nazionale jugoslavo, con i suoi aerei e i suoi mezzi pesanti, si preparava a invadere la Croazia per costringerla a rinunciare alla sua idea di indipendenza. Dal 3 settembre del 1991, Praljak e i suoi uomini iniziarono a combattere per difendere la città di Sunja.

Sulla carta lo scontro avrebbe dovuto avere un esito scontato: un esercito regolare dotato di armamenti moderni contro una milizia popolare, raccolta in tutta fretta e armata con equipaggiamenti di seconda mano. Fin dal primo momento, però, l’esercito jugoslavo, formato soprattutto da coscritti serbi e montenegrini, subì un numero altissimo di diserzioni. Il morale delle truppe era bassissimo e in pochi avevano voglia di farsi uccidere in nome della Jugoslavia, uno stato che sembrava già condannato. L’esercito jugoslavo non riuscì a sfondare e a dicembre il fronte divenne stabile. Sunja non era stata conquistata, ma un altro conflitto stava per scoppiare poco lontano.

La Bosnia è la regione centrale della ex Jugoslavia e una delle più povere. All’epoca, come lo è oggi, era attraversata da forti tensioni tra le tre principali comunità che la abitavano: i bosgnacchi, di religione musulmana, i croati-bosniaci e i serbo bosniaci. All’inizio della guerra, nel 1991, croati e bosgnacchi erano alleati contro i serbi – e lo sarebbero stati anche in seguito. Ma nel corso del 1992 una serie di tensioni iniziarono a svilupparsi tra il governo della Repubblica di Bosnia, dominato dai bosgnacchi musulmani, e i leader delle comunità croato-bosniache nella parte occidentale del paese. Dopo una serie di incidenti, il conflitto divenne aperto e le milizie della comunità croato-bosniaca (HVO), appoggiate dall’esercito regolare croato, iniziarono a scontrarsi con l’esercito e le milizie bosgnacche.

Secondo la storiografia più recente, quegli attacchi facevano parte di un progetto che i leader croati accarezzavano da molto tempo. «Era almeno dal 1991 che Tuđman e il leader serbo Milosevic si incontravano, direttamente o tramite sottoposti, per mettere a punto la spartizione della Bosnia», ha spiegato al Post Alfredo Sasso, ricercatore di storia contemporanea e collaboratore dell’Osservatorio Balcani Caucaso. «L’idea di dividersi la Bosnia tra serbi e croati esisteva almeno dal 1939. Che i leader croati avessero questi obiettivi è uno degli elementi che sono stati riconosciuti dal tribunale. In un certo senso, si è trattato di una messa in stato d’accusa postuma per Tuđman, che è morto nel 1999».

Il conflitto che ne nacque fu particolarmente brutale, come lo sarebbe stato poco tempo dopo quello tra bosgnacchi e serbo-bosniaci culminato con la strage di Srebrenica. Per i comandanti croati locali, lo scopo della guerra era creare aree “etnicamente omogenee”, cioè abitate solo da croato-bosniaci, che sarebbe stato facile annettere una volta arrivati al tavolo delle trattative. Così, quando le truppe dell’HVO occupavano una città o un villaggio, provvedevano a espellere la popolazione musulmana, imprigionando in condizioni disumane i maschi in età militare.

Un gruppo di prigionieri musulmani nel campo di Dretelj (AP Photo/Darko Bandic)

Praljak, divenuto nel frattempo uno dei più importanti leader militari croati, fu per molti mesi il rappresentante ufficiale dell’esercito croato in Bosnia, un ruolo grazie al quale esercitava un forte controllo sulle milizie croato-bosniache dell’HVO. Fu lui, nel settembre del 1993, ad autorizzare un gruppo di giornalisti a visitare il campo di prigionia di Dretelj, dove centinaia di musulmani erano tenuti prigionieri. Tra loro c’era il giornalista del Guardian Ed Vulliamy, che ha raccontato così quello che vide: «In un magazzino trovammo centinaia di uomini terrorizzati, seduti o in ginocchio. Le porte erano rimaste chiuse per 72 ore, lasciando gli uomini soffocare al caldo e nella puzza, costretti a bere la loro stessa urina». In un altro edificio «le porte erano aperte, ma c’era buio all’interno. I prigionieri erano in uno stato terrificante: scheletrici, la pelle butterata, gli occhi sbarrati. Ci dissero che le porte venivano spesso tenute chiuse e una notte le guardie gli avevano sparato contro a caso, uccidendo e ferendo diversi prigionieri. Nelle porte trovammo fori di proiettile e buchi nel muro dalla parte opposta».

Nell’attaccare le città, i croato-bosniaci fecero spesso un uso indiscriminato dell’artiglieria, colpendo obiettivi militari e civili. Praljak era al comando delle forze croato-bosniache che attaccarono Mostar, un’antica città musulmana della Bosnia. Durante il bombardamento venne preso di mira lo storico ponte della città, lo Stari Most, costruito nel 1557. Il ponte crollò sotto i colpi dall’artiglieria il 9 novembre del 1993.

Nel dicembre del 1995, dopo la fine della guerra, Praljak si ritirò dall’esercito e divenne un imprenditore di successo e un uomo molto ricco. Nel 2004 si consegnò spontaneamente al tribunale dell’Aia, che aveva deciso di processarlo insieme ad altri cinque leader croato-bosniaci per i crimini commessi in Bosnia. Praljak si difese con energia, mantenendo un ricco sito in inglese e croato con tutta la documentazione del suo caso. Nel corso del processo prese spesso la parola per difendersi. Vulliamy testimoniò personalmente contro di lui e Praljak lo controinterrogò personalmente. Dopo che Vulliamy aveva descritto le terribili condizioni dei prigionieri musulmani e i massacri avvenuti nella parte orientale di Mostar, Praljak gli domandò: «Non è forse un diritto e un obbligo per ogni popolo quello di difendersi e di aspirare alla libertà?». Nella sua difesa, Praljak sembrava tornato il registra di 30 anni prima, più intento a creare una scena drammatica che a condurre la sua difesa. Secondo Vulliamy, la sua era «un’istrionica follia».

Nonostante il suo carattere estroso, Praljak non raggiunse mai la fama e la popolarità di altri personaggi, come il generale Ante Gotovina, che condusse l’offensiva che portò alla sconfitta dell’esercito serbo nel 1995. «Praljak non è mai stato un personaggio di primo piano né dal punto di vista strategico né da quello intellettuale», ha spiegato Sasso al Post: «Ebbe un importante ruolo tattico come cinghia di trasmissione tra le forze regolari croate e quelle croato-bosniache, era conosciuto nell’ambiente militare e il suo sito era un punto di riferimento per i nazionalisti, ma non divenne mai un eroe popolare». Nemmeno dopo il processo di primo grado, che si concluse nel 2013 con una condanna a 20 anni, le fotografie di Praljak arrivarono a sostituire quelle di Gotovina nelle case di molti croati. Ieri, alla lettura del verdetto della corte d’appello, Praljak si è preso con un ultimo gesto teatrale il posto che probabilmente pensava di meritarsi.