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  • Giovedì 7 luglio 2011

Quelli che lasciano Israele

Nonostante i molti incentivi all'immigrazione degli ebrei, negli ultimi decenni quasi un milione di israeliani ha deciso di andare a vivere da un'altra parte

Fin dalla sua nascita, nel 1948, Israele incentiva l’immigrazione nel suo territorio degli ebrei che vivono all’estero (e di chi ha antenati di religione ebraica). Negli ultimi anni è in crescita però un fenomeno di segno opposto: molti israeliani decidono infatti di abbandonare Israele. La cosiddetta yerida (“discesa”) è oggetto di molte discussioni nello stato ebraico per le sue pesanti implicazioni sociali, demografiche e politiche. Un articolo di Foreign Policy si occupa di questo fenomeno.

Le stime del numero di israeliani che vivono all’estero variano molto e manca un sistema di rilevamento preciso, ma il governo ammette che gli emigrati da Israele attualmente siano almeno 750.000. Secondo altre stime, il numero arriverebbe a un milione. Sono cifre notevoli, se si tiene conto del fatto che Israele ha circa 7,7 milioni di abitanti: la percentuale di emigrati, superiore al 10% della popolazione, mette Israele a fianco di paesi ad alta emigrazione come Messico, Marocco e Sri Lanka. A gennaio di quest’anno si è tenuta anche la prima conferenza internazionale degli israeliani residenti all’estero.

Fin dall’indipendenza di Israele nel 1948, i governi hanno investito molto nei programmi e negli incentivi per garantire una numerosa e continua immigrazione nel nuovo stato di persone di religione ebraica: il provvedimento principale è la Legge del Ritorno, approvata nel 1950. Nel 1970 venne estesa anche a tutti i cittadini stranieri che avessero genitori o nonni di religione ebraica e ai neoconvertiti. Il Ministero per l’Assorbimento dell’Immigrazione si occupa di trovare un lavoro e una casa ai nuovi arrivati, oltre a garantire loro una serie di incentivi fiscali e di altro tipo. Il “ritorno” in Israele si chiama aliyah in ebraico, “ascesa” o “salita”, e da sempre i governi lo dichiarano necessario per la sopravvivenza dello stato.

Ma le difficoltà nella risoluzione della questione palestinese, le condizioni economiche e una generale sfiducia nel futuro hanno convinto centinaia di persone a fare il viaggio inverso e ad abbandonare Israele: un desiderio che, secondo un recente sondaggio, riguarderebbe circa la metà dei giovani israeliani e che è in crescita negli ultimi decenni. Una ricerca di pochi anni fa riportava che poco meno del 60% degli israeliani avevano preso contatti con un’ambasciata straniera o intendevano farlo per ottenere una seconda cittadinanza, anche se a breve non intendevano lasciare il paese. L’ambasciata statunitense, da sola, ha in sospeso quasi 250.000 richieste di un secondo passaporto.

Gran parte degli emigrati si trasferisce negli Stati Uniti (le stime parlano di circa due terzi del totale) e più o meno un quarto sceglie l’Europa. Si tratta solitamente di giovani, con un alto grado di istruzione e poco legati alla religione ebraica, che quindi si sentono poco a loro agio nella radicalizzazione delle posizioni politiche degli ultimi anni e nella crescente influenza dei gruppi religiosi ebraici più rigidi e ortodossi. La yerida, termine che significa “discesa” e che si oppone, con una connotazione negativa, all’aliyah, sta cambiando gli equilibri demografici dello stato ebraico: attualmente i cittadini israeliani di dichiarata religione ebraica sono circa il 75% (erano l’89% nell’anno del massimo storico, il 1957) ma la popolazione araba ha un numero medio di figli per donna molto più alto e il numero di ebrei disposti a trasferirsi in Israele, dopo l’ondata di cittadini dell’ex Unione Sovietica all’inizio degli anni Novanta, sembra in netta diminuzione. Tutte le previsioni indicano che nei prossimi decenni la percentuale di ebrei in Israele diminuirà parecchio.

foto: AP Photo/Johnathan Shaul