La storia non la riscrive un rapporto di questura

C’è una dichiarazione di Giorgio Napolitano rimasta famosa. L’attuale capo dello stato la pronunciò nel 1996, appena nominato ministro degli interni del governo Prodi: il primo ex comunista a entrare nella stanza dei bottoni del Viminale, dove per convinzione antica e consolidata si celavano anche tanti segreti d’Italia. Ma il neoministro gelò le attese: «Non vado al Viminale per aprire armadi, non intendo riscrivere cinquant’anni di storia».

Oggi che Matteo Renzi ordina la desecretazione di documenti fin qui visionabili solo dai magistrati, sarà bene ricordare quella frase, che venne messa a carico di Napolitano come se fosse prova di omertà. Mentre era la sintesi perfetta di un senso dello Stato e della storia che, come Napolitano sapeva bene, a sinistra trent’anni dopo la morte di Togliatti era ormai alquanto approssimativo.

Fosse o no uno scrupolo eccessivo, Napolitano non voleva vedersi assegnata la missione della Verità e, per facile estensione, della Giustizia e magari della Vendetta. Voleva smontare l’illusione che si potesse scrivere un’altra storia d’Italia giustificando con trame, complotti e insabbiamenti quella che per la sinistra era stata “solo” una lunga colpevole stagione di sconfitte politiche.

Quanto avesse ragione l’allora ministro l’avremmo capito solo negli anni successivi, quando la cultura politica della sinistra si sarebbe talmente deteriorata da far ritenere a larghe masse che la storia occulta e parallela fosse più importante e “vera” della storia che il paese aveva concretamente vissuto e stava vivendo: fantastico alibi per non guardare in faccia la realtà, non capirla, continuare a subirla.

Oggi, come dice Marco Minniti a Europa, «l’Italia è matura» per conoscere particolari fin qui poco accessibili, ancorché non «segreti» anche perché ciò che davvero si voleva tenere nascosto certo non è rimasto scritto da nessuna parte.

Non è una contraddizione con quella frase di Napolitano del ’96. È un’altra conferma della profonda rottura di continuità rappresentata dall’avvento di Renzi.

Renzi non c’entra più nulla, né personalmente né politicamente, con gli anni remoti della Prima repubblica, stragi e misteri, veri o presunti, compresi. Non deve fare i conti con la subcultura della dietrologia e del sospetto. Sa, per mentalità e per il tempo trascorso, che la storia non si farà riscrivere da un rapporto di questura o dei servizi segreti. Dunque non deve farsi carico del ruolo in qualche modo “protettivo” che Napolitano pensò di dover assumere.

Sapremo qualcosa in più, ma non entriamo nell’era della Verità. Casomai nell’era della semplicità, che mi pare anche più importante.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.