Assurdo per assurdo, è berlusconiano anche Bersani

La scommessa incrociata di Bersani e di Renzi si sta rivelando azzeccata e il Pd – lo ripetiamo – sta già vincendo le sue primarie. Non solo per l’assoluta indiscutibile centralità che la sua vicenda ha conquistato sulla scena politica per motivi che nulla hanno a che fare con scandali, degenerazioni e ruberie. Ma anche perché, nel giro di pochissime settimane, il partito è già molto cambiato. Vista la morta gora nella quale giaceva da tempo, la notizia non può che essere positiva, ed è ancora un processo largamente incompiuto: le storie di Veltroni e D’Alema annunciano che fra un anno in questi giorni, nella stagione congressuale, il Pd sarà una cosa completamente diversa da quella conosciuta fin qui. Migliore o peggiore, dipende più da chi resta che da chi va.
Naturalmente il Pd sta cambiando su vari livelli, e in direzioni che non possono piacere a tutti. Questa però è la politica.
Per esempio, Europa può non condividere l’evidente slittamento a sinistra della linea democratica, certificato dalle sue alleanze, dalla Carta d’intenti sottoscritta sabato con Vendola, dalle regole assurde e punitive (soprattutto per gli elettori) stabilite per le primarie. Ma era difficile che andasse diversamente, in un tempo di crisi che classicamente premia le posizioni della rassicurazione su quelle dell’innovazione; e in presenza di una aperta offensiva interna alla quale le aree più liberali del Pd non hanno saputo offrire alcuna valida replica.
Rammaricarsi, come fanno molti, non ha senso. L’esito di questa partita era segnato da prima ancora dell’elezione di Bersani a segretario, dal giorno stesso delle dimissioni di Veltroni.
Ci penseranno la stessa durezza della crisi e le condizioni politiche generali a riequilibrare le cose dopo la sbornia elettorale, come del resto è successo ai socialisti in Francia (e in Germania e Gran Bretagna, lì più seriamente senza aspettare le elezioni): sotto stretto controllo europeo ci sarà implacabile continuità con le misure montiane (per carità, corrette di solidarismo ed equità), e i numeri parlamentari obbligheranno ad archiviare le assertive frasi anti-centriste con le quali oggi Vendola cerca di far digerire alla sinistra radicale la nuova avventura governista.
Lo slittamento a sinistra però è solo un aspetto della mutazione in atto. Il più transitorio probabilmente. Altre mutazioni saranno di lunga durata.
Il ricambio di gruppo dirigente, a lungo invocato a parole, è in atto ed è perfino vorticoso. I talk show televisivi sono stati rapidi a registrarlo e ad appropriarsi dei nuovi personaggi. Accadde anche agli albori della Seconda repubblica, c’è solo da augurare e augurarsi che non tutti quei precedenti vengano imitati. Alcuni dei nuovi (e delle nuove) già commettono il tipico errore di chi, in attesa di essere autorevole, intanto rimedia con l’arroganza. Cresceranno.
Dai big che fanno passi indietro, o di lato, i giovani hanno ancora davvero molto da imparare. La fiducia della base del partito e il riconoscimento da parte dell’establishment nazionale non si ottengono con un paio di comparsate in tv. Matteo Renzi, amato o avversato, è già un modello da imitare: per fare il salto di qualità bisogna lavorare, rischiare, emanciparsi.
Così del resto hanno fatto quand’è toccato a loro, ed erano ben giovani, Walter Veltroni e Massimo D’Alema.
Gli stili di lotta interna e le arene in cui farsi largo erano diversi, ma nessuno può dire che la loro carriera sia stata frutto di un abuso o di un equivoco. Andrea Romano ne ha scritto benissimo, descrivendo un’altra caratteristica: la logica clanica, il dividersi sempre però sentendosi parte di un’unica cordata, di una generazione saldata da un destino comune che poi ritroviamo in questi giorni, al di là delle mosse tattiche nel momento della difficoltà, come al solito diverse a seconda dei caratteri e dell’istinto.
Il destino comune di D’Alema e Veltroni, a ben guardare, non è stato neanche così felice fino a oggi. Perché loro, e tanti altri con loro, appena arrivati alla piena maturità umana e politica si sono trovati a sbattere la testa contro un fenomeno mai visto prima, irripetibile e devastante: Berlusconi ha cambiato le regole sulle quali si erano formati, ha causato le loro sconfitte, ha rovinato e limitato le loro vittorie, ha condizionato e in definitiva compromesso le loro ambizioni più alte. Peggio ancora, ce li fa apparire in prospettiva come una generazione di perdenti, e anche in quanto tali meritevoli di rottamazione.
È un’ingiustizia ed è un peccato. Come ha giustamente detto Veltroni, il centrosinistra versione Pd è oggi forte e in piedi, mentre il centro e il centrodestra si dissolvono e si frammentano, anche grazie alle scelte non scontate del passato. Ed è perfino ironico come giovanotti tipo Renzi e Fassina girino in definitiva intorno agli stessi problemi coi quali hanno dovuto fare i conti (sbagliando e fallendo ognuno per la parte sua) proprio D’Alema e Veltroni.
Vedremo quale sarà la strada dei due eredi di Occhetto: certo non finisce qui.
I loro successori farebbero bene a guardarsi ancora dall’uomo nero – si fa per scherzare – che ha guastato i sogni di una generazione che ne aveva fatti tanti.
Già, Berlusconi può ancora fare danni. Può avvelenare le acque, anche senza fare nulla.
Per esempio se dovesse proseguire la diffamazione a danni di Renzi sul suo presunto “berlusconismo”. Proprio come capitò appunto a D’Alema e Veltroni, vicendevolmente sospetti di inciucismo col Cavaliere solo perché si trovarono a doverci trattare, com’era inevitabile ancorché impossibile. La storia potrebbe ripetersi.
Ciò che a sinistra non si capisce, accecati dal settarismo, è che ogni gesto della politica, nel perdurante tempo del berlusconismo, ha in sé qualcosa di Berlusconi, semplicemente perché Berlusconi a sua volta ha in sé qualcosa di tutto.
Renzi si muove secondo tecniche berlusconiane? Certo, ma solo perché usa un linguaggio diretto che spezza gli stilemi della mediazione politica. Allora però anche il Bersani di Bettola è un po’ berlusconiano, in quel suo riproporre con semplici accorgimenti dell’aborrita comunicazione politica la mistica del padre onesto lavoratore, la famiglia unita, i valori di una volta, la gente che s’è fatta da sé, la biografia personale come proposta politica.
È un’accusa assurda? Certo, ma non più assurda di quelle rivolte oggi a Renzi e ieri a Veltroni, a D’Alema, a tanti altri. Sicché, alla fine, viene da dire che il miglior modo per rispettare i leader che oggi lasciano il proscenio sarebbe quello di rinunciare ad abbeverarci nei pozzi inquinati che hanno guastato la vita loro, e della loro tribù.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.