Nervi a posto

Dice: ma com’è nervoso il Pd. Diviso tra fedeltà al governo e impazienza di andare a votare; tentato da operazioni trasversali anti-austerità come quella in parlamento contro la ratifica del fiscal compact; spesso pronto a scattare contro i ministri, anche quelli più “amici”, appena ha l’impressione che si preparino misure non abbastanza concordate, tanto peggio se in settori sensibili, costituencies proprie come la scuola, la sanità, il lavoro. Beh, motivi per essere nervoso e impaziente il Pd ne ha.

Non c’è bisogno di pensarla su tutto come Stefano Fassina per vedere che, come dice lui, la spinta propulsiva del governo Monti appare esaurita e che il premier non riesce a rimotivare la propria maggioranza.
Il paese è scosso – in ogni senso – affannato, deluso. Si fa strada una disperazione che inevitabilmente si scarica, come rabbia e come protesta, sul sistema politico. Cioè innanzi tutto sui partiti, senza fare differenze. Del resto l’insoddisfazione lambisce ormai anche lo stesso presidente Napolitano, che pure godeva e gode di un consenso enorme.

Il Pd, soprattutto nei giovani della segreteria, deve però tenere a bada la propria impazienza.
Nessuno dei suoi problemi si risolverà marcando le distanze da Monti a colpi di interviste. Tutto quanto sta accadendo era scritto, era implicito nella genesi e nella missione del governo. Anche che il quadro politico si sarebbe rischiosamente mosso dopo le amministrative era prevedibile e previsto, poi Grillo ha trasformato la fibrillazione in panico.

Ma il problema dell’Italia non sono i ministri. Nessuna persona seria potrebbe dire oggi, nel pauroso scenario europeo, che sarebbe stato meglio se avessimo avuto qualcun altro al posto di Monti. Dargli «5 in pagella» come fa Matteo Orfini è una goliardata, un’uscita da rottamatore. Quando Monti avrà chiuso la propria esperienza avrà fatto cose discutibili e discusse, ma certo ne avrà fatte molte, e importanti. I partiti intanto che cosa avranno fatto?

Il Pd può giustamente vantare interventi decisivi per raddrizzare la riforma del lavoro e per emendare quella delle pensioni: molto più del Pdl, che del governo ha succhiato le ruote per evitare di essere spazzato via subito, mentre ora medita ribaltoni all’inseguimento di elettori furiosi. Il compito principale che spettava in questo scorcio al parlamento, l’autoriforma del sistema politico a partire dalla legge elettorale, quello invece è largamente incompiuto. Per carità, le responsabilità principali di questo fallimento saranno sicuramente nel campo del centrodestra. Ma dichiarazioni improvvide come quelle di Fassina («votiamo a ottobre») fanno sospettare che anche da questa parte non ci si creda, e forse non ci si sia creduto mai.

A questo punto del 2012 è ormai chiaro che i democratici devono fare la gara elettorale principalmente su se stessi. Se Bersani vorrà e saprà davvero dare una scossa (gruppi dirigenti giovani, forte turn-over nelle candidature, una comunicazione più brillante, porte aperte alla società) non si vedono avversari vecchi o nuovi in grado di impedire una vittoria elettorale del suo partito, fra meno di dieci mesi. Non c’è però da fremere d’impazienza, nel frattempo. E non solo perché il nervosismo tradisce una certa insicurezza di fondo in se stessi, come di chi si senta sempre sul punto di essere defraudato di un diritto a causa di qualche malefico complotto: una sindrome che purtroppo qualche volta viene alimentata anche dalle interviste di D’Alema contro «la borghesia». Difficile che lui, uomo di stato e di mondo, creda davvero a questi fantasmi: magari però i più giovani e inesperti finiscono per agitarsi.

Il problema vero, grave, è che chi si candida a governare l’Italia nel 2013 non si prepara a una festa. Vincere le elezioni è solo una parte del lavoro dei partiti (in teoria non il loro fine ma un mezzo: in teoria). I sondaggi non promettono per il dopo né stabilità né autosufficienza. Il ciclo economico negativo non è affatto finito, molte misure antipatiche sono ancora da prendere. Ci saranno da spartirsi poca gloria e ancora tanto malumore. Ricette infallibili per la crescita non esistono. Sentirsi i francesi di Hollande vicini potrà far piacere e compagnia, ma non avvicinerà la soluzione dei problemi. Dunque chi critica i ministri tecnici oggi dev’essere ben sicuro di saper fare meglio di loro domani, in una situazione magari anche più difficile. Solo su questo saranno tutti giudicati, non sulla sapidità delle battute.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.