Le condizioni per farcela

Il commento più preciso, adatto, consono ieri l’ho trovato su Twitter, come è d’obbligo questi tempi.
Suonava più o meno così: «Ragazzi, non mi sento all’altezza di questo governo».

È vero, questa è la sensazione a caldo dell’incredibile prima giornata col governo Monti. Presto cominceremo ad avere dimestichezza con i ministri del professore, passeremo a scrutinarli, svelarne le mosse e i difetti, criticarli se necessario. E naturalmente lo stupore di oggi è tutto dovuto a due fattori: in primis al confronto stridente fra la qualità (non personale, professionale) del gruppo di persone che giurava ieri davanti a Napolitano, e la squadra che era stata radunata nello stesso luogo tre anni fa da Berlusconi; in secondo luogo alla rapidità con la quale la sostituzione si è realizzata, un capolavoro di prontezza politica e di agilità nelle strettoie costituzionali che poteva essere realizzato solo da Giorgio Napolitano.

(Fatecelo scrivere, tra parentesi: l’unica rivalsa che vogliamo prenderci oggi è su quanti – anche nelle opposizioni, dal Fatto a Di Pietro e non solo – negli ultimi anni hanno mugugnato e perfino svillaneggiato contro le prudenze e le presunte concessioni che il Quirinale faceva a Berlusconi. Ora certo si capisce meglio quanto fosse forte il filo tenuto con Gianni Letta, ma soprattutto quanto al capo dello stato premesse preservare per sé un ruolo super partes che sapeva di dover spendere, prima o poi, al momento delicato del collasso della maggioranza).

Torniamo però al punto del disorientamento. Abbiamo talmente assimilato l’idea che l’Italia sia stata avvelenata e corrotta nel profondo negli anni dell’epopea berlusconiana, che di fronte alle donne e agli uomini di Monti avvertiamo quasi la paura che potrebbero non farcela non per propri errori o limiti, o per i bastoni fra le ruote della politica, ma perché dovranno mettere le mani in un paese troppo compromesso. «Non all’altezza», come dicevano su Twitter.

È un pensiero sbagliato, da combattere. Non solo perché allude a un elitismo inaccettabile che il professor Monti per primo – per quanto non privo di autostima – respingerebbe. Ma soprattutto perché l’attesa positiva e perfino la stanchezza del paese sono in realtà le grandi risorse che possono trasformare questa avventura in un successo.

Può darsi che per una volta – non gli capita spesso – le cosiddette parti sociali abbiano interpretato, non sappiamo quanto consapevolmente e sinceramente, un profondo senso comune degli italiani. È stato quando, l’altroieri, hanno detto al presidente incaricato più o meno così: ognuno di noi ha qualche paletto fermo da mettere, ognuno ha qualche proposta da fare a danno di qualcun altro, ma ci rendiamo conto che nell’emergenza dovremo affidare al nuovo governo un margine ampio di compromesso sociale. Dunque, siamo disposti a rinunciare, a venirci incontro, a enfatizzare i punti di accordo su quelli di disaccordo.Non sono concessioni: è la precondizione, più volte riaffermata dal presidente della repubblica, per fermare l’Italia sull’orlo del baratro che le si para dinanzi, per rigirarla e rimetterla in movimento nella direzione della crescita.

È tutto da vedere quanto le disponibilità affermate diventeranno concrete al momento delle scelte: ogni diffidenza è autorizzata. Però abbiamo anche noi l’impressione che il tempo delle barricate a difesa di interessi e privilegi possa essere se non finito, almeno sospeso. Indebolito dalla crisi di cui si sentono parte e vittime. Un po’ esaurito, come s’è esaurita (almeno apparentemente) la voglia delle figure politiche e pubbliche di litigare davanti a tutti, in televisione, alzando il livello della voce e abbassando quello degli argomenti.

Ecco, a un paese spaventato e stanco possono parlare con efficacia i ministri di Mario Monti, anche se s’è capito subito che la comunicativa non è il loro pregio principale (anche questo però potrebbe trasformarsi in un vantaggio: non è scontato, ma potrebbe essere).

Sulla rete, che è un po’ il concentrato delle passioni e anche dei pregiudizi più incongrui, il governo appena nato è già stato battezzato come il gabinetto dei banchieri, degli emissari del Vaticano, dei professori altezzosi. Ci sarà stampa di destra e di sinistra che alimenterà questa campagna di discredito, senza fermarsi davanti ad alcuna delle più ridicole ipotesi complottistiche. Sarebbe facile mettere tutti a tacere riproponendo, fino a esaurimento, il paragone fra il governo nato ieri e la situazione nella quale ci trovavamo solo venti giorni fa.

Con quel governo, quelle competenze, quella certificata incapacità di affrontare non dico la crisi di sistema, ma neanche l’emergenza quotidiana (la fine fatta da Giulio Tremonti è l’emblema: in quali mani eravamo finiti). Il confronto però è risposta già banale, già superata dai fatti, e comunque insufficiente.
La più convincente replica alle critiche è intanto nelle vere biografie delle persone scelte da Monti e da Napolitano. Perché sono tutte biografie complesse, e tutte molto dense di politica. Non confondiamo questo passaggio, per fare un esempio, con l’epoca dei professori ai quali venne per un periodo affidata la Rai, tanti anni fa. Lì davvero c’era estraneità, elitismo, alterità e distanza, alla fine incompetenza specifica. Qui c’è gente che, nelle rispettive carriere, s’è dovuta misurare molte volte con la concretezza delle scelte, con la complessità della mediazione politica (perfino a livello internazionale), con la necessità del compromesso. Il loro presidente del consiglio, del resto, è l’emblema esattamente di questo.

Ci si chiede: e la politica? Questa sospensione di sovranità democratica? Tutte le risposte giuste sono già state date, in queste ore. Intanto, proprio grazie alla situazione che s’è determinata, il parlamento sarà da domani (anzi già da oggi, al senato) un luogo straordinariamente più importante non solo di quanto sia stato negli ultimi due anni e mezzo, ma anche di quanto fosse nelle legislature scorse. Sarà il luogo della formazione di maggioranze non scontate né predeterminate. Sarà il luogo di leggi e di riforme non delegabili al governo. Sarà il luogo dove incuberanno le nuove coalizioni. Insomma, l’opposto di un’arena dove solo due attività erano consentite: spingere tasti e insultarsi a vicenda.

Poi appunto ci sono i partiti. Questo è un discorso che andrà ripreso, e che per la parte che ci riguarda più da vicino – la parte del Pd – si presenta pieno di inevitabili novità, di sfide affascinanti, di una possibile rilanciata ambizione maggioritaria. Di fronte al paese di cui parlavamo prima, l’Italia stremata e per ciò stesso disponibile e “in attesa”, è però il sistema dei partiti nel suo complesso che ha – proprio dal governo Monti – la sua opportunità.

Ora se vuole e se sa ha tempo, modo e motivazione per autoriformarsi e per riproporsi alla prova elettorale del 2013 in condizioni accettabili. I discorsi sulla fine della Seconda repubblica o sulla chiusura dell’epoca bipolare sono astrazioni politologiche: la sostanza sarà nella riorganizzazione dei campi di centrosinistra e centrodestra e nella competizione (riapertasi, ma col centrosinistra in vantaggio di credibilità) sul fronte della responsabilità verso i bisogni dei cittadini.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.