Per difendere il PD

E quello che ne rimane. Perché il presente non è un attacco a Bersani (non mi interessa, né mi appassiona), ma una difesa del Pd. Ed è anche l’ultima, perché passare per «mentecatti» va bene, ma c’è un limite a tutto. E ci sono tante cose da fare nella vita, che premono e che urgono, oltre a seguire le evoluzioni del Pd (che poi non lo sono, perché l’unica evoluzione di questi mesi è stata quella di perdere voti, un terzo, secondo i sondaggi).

Dal «Vieni via con me» di sabato siamo passati al «Quanta fretta, ma dove corri, dove vai?».

Perché l’intervista di oggi su Repubblica, insieme alle dichiarazioni del vice di ieri (che ha una vice-linea ormai da mesi), confondono il nostro elettorato e fanno pensare che se c’è qualcuno che se ne sta andando dal Pd, questo qualcuno sia rappresentato proprio dai suoi vertici.

Due cose da notare prima delle altre: il Terzo polo non è (ancora e chissà se lo sarà mai) una formazione politica, non si sa esattamente di quanti voti disponga in Parlamento (nel Consiglio regionale della Lombardia, invece, lo si sa: solo quelli dell’Udc), non pare si voglia alleare con il centrosinistra (così ha detto Fini domenica scorsa e Casini non si è mai espresso chiaramente, perché non lo può fare, per ragioni statutarie) e non pare ci possa consentire di costruire il governo tecnico che stiamo inseguendo da mesi (alla Camera non c’è una maggioranza alternativa e al Senato le cose vanno anche peggio). Dal punto di vista elettorale, poi, le chimere sono sempre problematiche, perché si perdono voti da tutte le parti, a destra e a manca.

Non si capisce che cosa faremmo con questa alleanza, dall’Anpi a Salò, come ha scritto qualcuno (altro che Cln), né cosa diremo sull’economia, sull’università, sul lavoro (perché Marchionne è un affamatore di popoli, invece quegli altri sono sinceri democratici), sul precariato, sull’acqua, sulla sicurezza, sul nucleare, sui diritti civili e, nemmeno, su quel sistema elettorale di cui si parla da mesi, per cui era nato un gruppo di lavoro che non ha trovato una sintesi, nonostante l’enfasi politica con la quale era stato accompagnato.

Non si capisce perché lo schema dovrebbe essere lo stesso del 2006, solo che qui c’è l’aggravante che l’Unione è semplicemente più allargata di prima. «Tutti contro B»: così abbiamo sempre perso, alle elezioni o subito dopo. Tranne una volta: quando sapemmo esprimere un leader (ma a Bersani, a cui la leadership non interessa, liquida la questione parlando di «organigramma») e un progetto per il Paese, credibile e coerente.

E poi le primarie da riformare (dopo che sono già state riformate, tra l’altro, sei mesi fa): si vota in molte città strategiche e, proprio ora, si mettono in discussione le primarie. La verità sembra a tutti (elettori e commentatori) un’altra: a Milano è andata come sapete, a Torino è stato bruciato il candidato che doveva tenere insieme tutti (e li teneva insieme), a Bologna, dopo varie vicissitudini, il Pd non sembra convinto dei candidati che sono in campo, a Napoli non parliamone. Paura di perdere, si chiama, quando, almeno a Bologna e Torino il centrosinistra dovrebbe vincere facilmente. A Napoli no, perché in questi anni non si è fatto nulla per cambiare direzione.

In questi mesi, con questa strategia, siamo arrivati al 23% e con questa mossa scenderemo ancora, per poi dire che il Pd al 20% non basta. E che bisogna allearsi con «tutti tranne B».

Per difendere il Pd, sarebbe semplice fare alcune cose:

Un elettore su tre se n’è già andato (per non parlare degli iscritti). Recuperare milioni di persone potrebbe essere la nostra priorità, politica ed elettorale. Perché per vincere, lo sanno tutti, in tutto il mondo, bisogna motivare i propri elettori e i nostri, tantissimi, dal Pd sono passati al Pda, il partito dell’astensione. Si era detto al Congresso che ci voleva un partito più strutturato: a un anno di distanza, il partito è meno strutturato di prima. Un bel record.

C’è bisogno di chiarire i rapporti con Vendola e Di Pietro, cercando occasioni pubbliche e trasparenti in cui precisare che cosa si intende fare insieme, dimostrando responsabilità, esattamente come facciamo in tutte le amministrazioni in cui insieme governiamo, da anni, ormai, a meno di non voler mettere in discussione anche quelle, già che ci siamo.

Rispettare le linee congressuali: perché chi ha vinto il Congresso, difendeva il bipolarismo e le primarie e sosteneva che i nostri sospetti fossero malevoli. E invece non erano malevoli e, a questo punto, nemmeno sospetti.

Chiarire il concetto di «moderato», perché nel Pd di «moderati» ce ne sono già molti e questa rappresentazione di un Pd quale espressione della sinistra tout court, che qualcuno continua a rilanciare, li mette in difficoltà. Anche perché non è vera e diventerà realistica solo se proseguiremo con questo andazzo.

Estendere le primarie alla scelta dei parlamentari, spiegando ai cittadini che cosa vuol dire, perché il Pd era nato per dare parola agli elettori e non solo ai vertici. E vale per questo e per altri discorsi degli ultimi mesi.

Presentare una proposta di legge elettorale compiuta, da discutere pubblicamente con tutti quanti.

Lo «schema Puglia», che qualcuno rivendica con orgoglio (!), ci ricorda che per vincere bisogna disarticolare le destre. Se il Terzo polo si costituirà e si vorrà presentare alle elezioni, sarà una buona notizia. Se vorrà venire con noi (cosa di cui è lecito dubitare), facciamo in modo che siano loro a chiedercelo, alla fine, e non noi, all’inizio, mettendoci in una posizione ancillare che sconfessa le stesse ragioni per cui il Pd è stato concepito. E valutiamo se questa alleanza risponde all’esigenza di cambiamento che dovrebbe essere la nostra unica ragione di vita.

Perché qualcuno dice che il Pd non esiste più. E, dopo l’intervista di oggi, non ha tutti i torti.

Pippo Civati

Pippo Civati è il fondatore e direttore della casa editrice People. È stato deputato eletto col Partito Democratico e ha creato il movimento Possibile. Il suo nuovo libro è L'ignoranza non ha mai aiutato nessuno (People).