Mucche nella neve
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Mucche nella neve
Michele Serra
Martedì 2 aprile 2024

Mucche nella neve

«Il sergente nella neve, il libro più famoso del papà di Gianni, Mario Rigoni Stern (ne ha scritti diversi altri, magnifici, sul rapporto tra l’uomo e la natura, gli alberi e gli animali, l’aria aperta e le montagne), è il racconto della ritirata degli alpini italiani dalla Russia»

(Ansa)
(Ansa)

Nella cassetta delle lettere trovo una busta gialla. L’indirizzo è molto essenziale: c’è il mio nome, c’è il nome della vallata dove abito e niente altro; ma il postino mi conosce e mi trova, sono i vantaggi non piccoli dei piccoli posti. Nei due francobolli c’è Tex Willer a cavallo, celebrano il 75esimo del più famoso cowboy italiano. Non sapevo che esistessero i francobolli di Tex. Sono contento per Tex e, tutto sommato, anche per i francobolli, che reggono eroicamente l’urto del tempo e della digitalizzazione.
Dietro la busta c’è il nome del mittente: RIGONI STERN, in stampatello nero. Breve tuffo al cuore. Ma i morti, anche i grandi morti, non scrivono, Mario Rigoni Stern riposa dal 2008 nel cimitero di Asiago. Si tratterà sicuramente di suo figlio Gianni. Di persona ci siamo incrociati solo una volta, ma una dozzina di anni fa scrissi di lui e delle sue mucche, credo su Repubblica (ho una memoria ballerina e come archivista faccio spavento). Dopo la guerra in Jugoslavia Gianni partì da Asiago e portò 48 vacche sull’altopiano di Srebrenica, che è il nome di un luogo e cerca di non essere soltanto il nome di un genocidio. Fu il peggiore massacro di civili, in Europa, dopo la Seconda guerra mondiale. Nel luglio del 1995 ottomila bosniaci musulmani furono prima rastrellati e poi uccisi dai serbo-bosniaci del generale Mladic. Si chiama “pulizia etnica”, difficile riuscire a immaginare qualcosa di più lurido, e di più difficile da rimediare.

Pare che l’altopiano sul quale poggia Srebrenica sia molto simile a quello di Asiago. Gianni Rigoni Stern ci andò per la prima volta nel 2009, poco dopo la morte del padre. La Bosnia è quasi dietro l’angolo, dista da Asiago otto ore di macchina. Ci si trovò come a casa sua. Pensò che la cosa migliore per combattere la fame, lo spavento, la depressione di quella gente già povera, e ancora impoverita da quella schifosa guerra di tribù e di religioni (tutta roba imputridita nei secoli), era portargli un po’ di vacche. E lo fece, con l’aiuto della Provincia autonoma di Trento. Manze e manzette autoctone dei monti e dei pascoli attorno Asiago da distribuire a orfani e vedove. Che a Srebrenica equivale a dire: da distribuire a tutti. Dicono i testimoni che Gianni parlasse in Veneto stretto, e gli indigeni lo capivano al volo. Dicono anche che abbia detto: trattatele bene, le vacche, o vi carico di botte – era per intendersi tra montanari.
Ma la storia delle vacche di Gianni Rigoni Stern è troppo bella e troppo importante per risolverla in poche righe, dunque mi fermo qui e torno alla busta gialla.

Dentro la busta gialla trovo sei fotocopie fissate assieme con una graffetta. La prima è la copertina di Il sergente nella neve, il libro più famoso del papà di Gianni, Mario Rigoni Stern (ne ha scritti diversi altri, magnifici, sul rapporto tra l’uomo e la natura, gli alberi e gli animali, l’aria aperta e le montagne). È il racconto della ritirata degli alpini italiani dalla Russia. Un libro famosissimo: probabilmente, in Italia, il libro più celebre, più popolare e più letto sulla Seconda guerra mondiale. Le altre cinque fotocopie sono alcune pagine del libro, a due a due: dalla 213 alla 221. Sulla copertina, sotto il piccolo struzzo della Einaudi, poche righe scritte a penna da Gianni. “Sulla scia di quanto accade in Ucraina ho riletto questo libro di tanti anni fa. E questa ‘novella’ mi sembra emblematica di come trattarono gli italiani in ritirata nel 1942/43”. Non una parola di troppo. Il padre avrebbe approvato la stringatezza del figlio.
Il titolino del capitolo, sempre trascritto a mano da Gianni, è “Quattro patate lesse”.
Il capitolo è troppo lungo perché lo possa trascrivere tutto. Chi vuole, può riprendere in mano quel libro asciutto e formidabile (formidabile perché asciutto). Ne riporto solo questo brano, così è come se Gianni e suo padre, scrivendo a me, avessero scritto anche a voi.

“Quella sera mi trovai solo in un lungo villaggio. Nevicava. Camminavo rasente agli steccati degli orti e il fucile ad armacollo mi teneva stretta la coperta, come uno scialle. Mi appoggiavo al bastone a ogni passo e la neve fresca frusciava sotto le scarpe. Arrivato al centro, dove c’è l’ampia piazza e la solita chiesa con le cupole a cipolla, sento con sorpresa suoni di fisarmoniche e chiasso allegro provenire da una casa con tutte le finestre illuminate. Mi avvicino per guardare attraverso i vetri e vedo dei soldati tedeschi che fanno carnevale con delle ragazze ucraine. Tra la neve che continua a cadere rimango indeciso se entrare per chiedere un angolo con un po’ di caldo, ma un vecchio alto e magro, avvolto in una pelliccia di pecora, mi si accosta e – Nièt! – mi dice. – Non entrare là dentro. Nimeski – dice – nema carasciò, – e prendendomi per la coperta mi tira via verso il centro della piazza, lontano dai riquadri di quelle finestre. – Vai verso quella strada – mi spiega – cammina fino in fondo, fino all’ultima isba del villaggio e chiama Magda. Dille che ti manda Piotr Ivanovic. Stanotte qui verranno i partigiani…
Gli dico grazie e lentamente riprendo a camminare. È buio, appena si intravedono le ombre delle isbe tra la neve che cade fitta e leggera. Ma dove busso e dico quello che mi ha detto il vecchio, una porta si apre come fossi aspettato.
La penombra dell’ingresso è appena sfumata da un lume a olio che la donna regge in alto. Con un cenno mi invita a entrare, ad andare avanti. E poi dice parole con voce tranquilla e pietosa, mi aiuta a levarmi il fucile, la coperta incrostata di neve che scuote vigorosamente e stende sopra il forno.
Sento il caldo prendermi con dolcezza e un grande sfinimento uscire dal corpo per invadere le membra. Mi siederei qui sul pavimento di terra battuta, con la schiena appoggiata alla parete del forno, ad aspettare che la primavera sciolga il gelo. In questo odore di cavoli, di rape bollite, di farina; in questo vapore umido e caldo, in questo quasi buio dove solo un piccolo stoppino brucia nell’olio di girasole; in questo silenzio profondo che la neve sul tetto isola qui dentro. Qui sotto. Aspettare un’allodola e un cielo verde e rosa come si vede dalle montagne verso il mare quando finisce l’inverno.
Sto seduto con la schiena appoggiata al forno e il caldo mi scioglie come la neve sulla coperta. La vecchia mi parla come fossi un bambino di pochi mesi. Parlando mi leva le scarpe e mi medica la piaga, poi mi fa alzare prendendomi sotto le ascelle e mi fa stendere su un giaciglio dove sono preparate pelli di pecora, e parla. Parla dolcemente dicendo cose che non riesco a capire. Dopo, apre il forno, leva di sotto un pignatto di terracotta e su un piatto di ferro smaltato mi porge quattro patate lesse e una presa di sale: – Cùsciai, cùsciai, – ripete come a un bambino viziato.
Mangio con gran fame e allora lei ritorna ad aprire il forno e ancora mi posa sul piatto delle pagnottine di farina morbide, calde e ripiene di latte cagliato. – Cùsciai, cùsciai – ripete. Dopo dice di sdraiarmi e dormire; lei prende un saccone di cartocci e si corica per terra vicino alla porta. Il lumino guizza ombre fantastiche contro le pareti dell’isba. Anche da bambino, quando dormivo nel grande letto di mia madre, il lumino a olio ardeva sul comodino davanti a un luccicante presepio di cartone, e nella stufa di cotto sentivo scoppiettare la legna di abete. Le pareti della camera brillavano come fossero state ricoperte di diamanti e di fili d’argento, ed era invece per la calaverna. Fuori, sulla strada che scendeva in piazza, sentivo le compagnie che cantavano il Natale, ma le ombre del lume e quelle del fuoco che danzavano sui muri mi facevano paura, e con la testa andavo sotto le coperte. E chiudevo gli occhi”.

Non conosco l’indirizzo di Gianni Rigoni Stern. Lo ringrazio qui della sua busta gialla. Non so perché l’abbia spedita proprio a me, ci conosciamo appena, mi meraviglia e mi emoziona. Mi ha fatto un grande regalo che attraversa il tempo e lo spazio. Lo ringrazio per le parole di suo padre e per le sue mucche. Sarebbe bello, un giorno, andare a trovarle sull’altopiano di Srebrenica. Se mette neve, troveremo sicuramente un tetto e un tavolo.

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Tutte le mail su “Bologna, i Clash e il Settantasette” – non tantissime – sono di boomers o quasi. L’argomento non coinvolge i miei lettori più giovani, e non è una cattiva notizia: almeno qualcuna delle nostre beghe generazionali sembrerebbe finalmente rimossa. Roba vecchia. Questa breve lenzuolata “rievocativa” si chiude con una lettera che suggerisce nuovi orizzonti per l’eterna disputa tra “rivoluzionari” e “riformisti”: non più la politica ma la tecnologia, in specie l’intelligenza artificiale. O meglio: il principale terreno della lotta politica, oggi, è l’uso della tecnologia. Dai Clash ai chip.

“Nel 1980 avevo 12 anni. A casa mia, devota all’ascolto dei cantautori, circolava una infausta baroccata a nome Rondò Veneziano. A scuola, un giovane supplente di italiano inorridì al sentirmeli nominare e mi intimò di passare seduta stante all’ascolto del triplo album dei Clash Sandinista!. Per non fare il passo più lungo della gamba, transitai prima dai Police. Oggi, felicemente boomer, dopo aver assaporato le meraviglie del mondo, dai Talking Heads a Tom Waits, direi che ancora preferisco Guccini ai Clash (anche se Sandinista! non è niente male). Sicuramente il mio giovane supplente, che non ho mai più rivisto, si sarà indignato leggendo la sua recensione del concerto dei Clash, così come faceva per certi articoli di fondo del Corriere della Sera che ci additava in classe come reazionari e fascisti senza che noi capissimo perché. Eravamo ancora troppo giovani per appassionarci allo scontro a sinistra: di lì a poco sarebbero arrivati gli anni Ottanta a spazzare via ideali e rivoluzioni”.
Andrea

“Nel ’77 avevo 24 anni e abitavo a Brescia. Non capivo le istanze e le posizioni di quel movimento, visto da lontano. Poi vado a Bologna, ospite di una cugina impegnatissima, con una casa in quei giorni e in quelle notti continuamente piena di persone, di discussioni, di organizzazioni, di fumo, di cibo e di vino. E capisco ancora meno, e torno a casa chiedendomi dove fosse finito, in quel ribollire di ribellione, quel senso di rivendicazione di sé, del proprio valore, del proprio diritto a una vita di crescita da ottenere con il lavoro e la propria intelligenza senza pagare dazi allo status sociale. Quel senso che aveva sostenuto i miei nonni operai socialisti nati a fine ‘800 per tutta la vita e attraverso il fascismo, e mio padre comunista attraverso la guerra partigiana, le scuole serali, e la sfida del futuro nei ’60. Quel senso lo avevo sentito anche io, con la ribellione del ’68 e il cambiamento che portò nelle aule scolastiche e mica solo lì. Alcuni anni dopo uscì quel bellissimo film che fu Paz, nelle cui atmosfere ritrovai in pieno l’estraniante esperienza del ’77 non solo nei personaggi, ma nelle scritte sui muri della città, una su tutte, indelebile nella mia memoria, simbolo di quella estraneità totale nonostante la vicinanza di età ed esperienza di vita: ‘vogliamo il caviale’. Mai simili furono più diversi, nella mia modesta opinione, di sessantottini e settantasettini”.
Barbara Melotti

“Sono un giornalista più o meno tuo coetaneo. Sono convinto di aver scritto robe decenti, ma anche scemenze. E non solo 40 e passa anni fa. Condivido il tuo percorso verso il disincanto, in un certo senso avvantaggiato inizialmente da una passione politica meno intensa, ma senza la tua fortuna di aver frequentato per lavoro la satira. Condivido la tua hit zeppa di pezzi di De Gregori. Mi hai riportato alla mente un dialogo abbastanza surreale che ebbi un tempo con una tipa fascinosa e tutt’altro che stupida. Quando le chiesi, appunto, se anche a lei piaceva De Gregori, mi rispose, con un’espressione mista di stupore e disprezzo: ‘No, io sono di destra!’. Ovvio, no? Forse avrei dovuto obiettare che a me piaceva anche Lucio Battisti. Invece rimasi senza parole”.
Maurizio Andreoli

“Che Bologna fosse il centro della repressione resta una sciocchezza epocale, così come il convegno del settembre 1977 che doveva sancire questo assunto, seppure vi abbiano preso parte personaggi autorevoli come Franca Rame e Dario Fo. Ricordo che all’epoca Guccini fu molto criticato negli ambienti della sinistra rivoluzionaria (?) per non avere partecipato, anche se ce l’aveva sotto casa. Per quanto fosse sbagliata l’idea della Bologna repressiva, certo stimolò molta creatività. Mi piace ricordare ‘Disoccupate le strade dai sogni’ di Claudio Lolli, un album bellissimo. Sono del 1956 e nel 1977 frequentavo l’università a Padova, per cui i fatti di Bologna li conosco solo indirettamente. Con amici che presero parte a quel movimento, è tuttora impossibile parlarne con serenità”.
Carlo Vareschi

“Arrivando ideologicamente immacolato nel 90 a Bologna, ho scoperto con gioia che non era necessario avere una coscienza politica. A Bologna, infatti, era possibile averne due o tre: di giorno ero uno studente di ingegneria e un liberale che sfoggiava copie dell’Economist, di sera mi univo ai rivoluzionari nei centri sociali occupati (con sostegno esterno), e nei fine settimana ero in corteo con i riformisti del PDS contro Berlusconi. Oggi si chiamerebbe Poliamore. La Bologna consociativa lo permetteva, ma era solo all’interno delle pagine di Cuore che la mia psicosi politica trovava un rifugio sicuro. Dove non ero costretto a prendere posizione. Divenni volontario nelle feste di Cuore a Montecchio, dove gestivo il banchetto delle “5 ragioni per cui vale la pena vivere”. In seguito, guidai le Brigate Molli di Bologna per Cuore, lasciando tra l’altro un televisore nel banco frigo di una Conad e un assegno simbolico di 200 milioni di lire a una sezione della Lega, proprio nella settimana in cui Bossi lamentava la scomparsa dei fondi”.
“Se sento la necessità di affiancare le mie memorie alle tue, è per aggiungere un elemento di contemporaneità alla riflessione sui Clash. Dopo trent’anni trascorsi in prima linea nel campo dell’informatica, immerso in una monocultura rivoluzionaria, ho finalmente visto risorgere una dialettica degna del Novecento con l’avvento dell’ultima generazione di Intelligenza Artificiale. Per giocare un ruolo attivo nella costruzione della Storia è necessario schierarsi: tra i Boomers (Rivoluzionari) o i Doomers (Riformisti), rappresentati oggi non più da Clash o De Gregori, ma da figure come Ilya Sutskever e Sam Altman di OpenAI, i protagonisti della faida dietro ChatGPT. Purtroppo molti non possiedono ancora gli strumenti per fare questa scelta o non hanno ancora avuto lo spazio e il tempo per elaborarla. Ed è per questo che la tecnologia ha un disperato bisogno di satira. Servono dieci, cento, mille nuovi Cuore per darci il tempo di riflettere”.
Donatello Bianco

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Zanzare mostruose questa settimana si concede una gustosa parentesi vintage per merito di Silvana ’49, che segnala un introvabile (pare) libro, uscito nel 1973, che raccoglieva titoli di giornale maldestri. Uno di questi, in effetti sublime, è diventato anche il titolo di quel libro:

STRANGOLATA CON UN PORTACENERE

L’editore è Bompiani, l’autrice Teresa Cremisi, dell’altra decina di titoli estratti dal libro mi è impossibile non segnalare

SPARA A UN CONIGLIO E UCCIDE UN’ANGUILLA

Immagino che il libro-album di Cremisi riporti anche la fonte dei titoli raccolti. Noi accontentiamoci di sapere che Zanzare mostruose ebbe dei valorosi precursori, mezzo secolo fa.

Sempre Silvana segnala il celeberrimo

POMPINI A RAFFICA, SAMMARGHERITESE KAPPAO

allegando debita fotocopia. Il titolo è del 1990, Stefano Pompini era il centravanti del Fiorenzuola (serie C2) e segnò una doppietta alla Sammargheritese. Il titolista del Lavoro di Genova non resistette – e come biasimarlo? – e confezionò quel titolo formalmente ineccepibile. Ma lasciamo da parte i classici e torniamo alla cronaca.

Mauro segnala, da Repubblica.it, questo titolo quasi impareggiabile per la difficoltà di comprensione. Solo per i solutori più che abili.

L’ALLENATORE DEI PULCINI SOSTITUISCE IL FIGLIO PER UN PROBLEMA A UNA SCARPA CHE GLI SI SFILAVA, ENTRA IN CAMPO E GLI DA’ UNA TESTATA, IL TECNICO IN OSPEDALE

I titoli lunghi evidentemente non garantiscono la possibilità di spiegarsi bene. Ma anche quelli brevi. Antonio segnala, dal Giornale di Sicilia, la creazione involontaria di una nuova categoria di figli:

FEMMINICIDI: FONDI PER I FIGLI INUTILIZZATI

Buona Pasquetta a tutti. Qui nel Nord-Ovest usciamo da una settimana grigia e invernale, i fiumi e le falde d’acqua sono stracolmi, la siccità per quest’anno è scongiurata e adesso c’è voglia di primavera. Sono già tornati, indifferenti al freddo, i cardellini e le ballerine nere, dette anche “batticoda”. Si aspettano le rondini.