Ricomincio da dove
Una newsletter di
Ricomincio da dove
Michele Serra
Martedì 3 ottobre 2023

Ricomincio da dove

Un dettaglio dell'immagine di Massimo Troisi nel manifesto di "Laggiù qualcuno mi ama"
(ANSA/FABIO FRUSTACI)
Un dettaglio dell'immagine di Massimo Troisi nel manifesto di "Laggiù qualcuno mi ama" (ANSA/FABIO FRUSTACI)

Non sapevo che Massimo Troisi (la persona, l’artista) fosse così direttamente e fortemente figlio di quello che chiamiamo, molto genericamente, “il Sessantotto”. Quei movimenti, quelle assemblee nei licei e nelle università, quel parlare e straparlare, e soprattutto quel brodo di coltura (cultura) così disordinato e ambizioso, cinema d’essai, teatro d’avanguardia in salette catacombali, letteratura tutta, psicanalisi molta, e se non bastassero Freud e Jung anche l’antipsichiatria di Laing e Cooper. E ovviamente, per amalgamare il tutto, la politica, che per quei ragazzi – miei coetanei o appena più grandi, Troisi era del 1953 – diventò, per qualche anno, sinonimo della vita.

L’ho imparata, questa filiazione culturale così diretta – Troisi figlio del Sessantotto – vedendo il bel film di Mario Martone “Laggiù qualcuno mi ama”. Nel quale, insieme a tante altre cose e a tantissimo, meraviglioso Troisi, si coglie quel clima – a distanza di tanti anni, commovente – di entusiasmo culturale così “d’epoca”. Un clima forse non proprio di massa, che però coinvolse centinaia di migliaia di ragazzi (e dunque sì, ripensandoci: di massa…) che ritennero utile o piacevole o doveroso, non so in quale ordine, andare a vedere i film di Tarkowskij o di Angelopoulos, compreso il mortifero piano sequenza di venticinque minuti di La recita; informarsi sull’io diviso di Laing; sedersi sulle panche masochiste dei teatri off. E come accade nella fase dell’innamoramento, tutto, della cultura e dell’arte, pareva meraviglioso, affascinante, mai superfluo e mai dannoso.
Come testimonianza privata, forse unica tra gli umani, posso dire di avere visto in un cinema d’essai di Milano, non ricordo se il Rubino o l’Orchidea, una rassegna dei film di Emil Loteanu, regista moldavo. Forse ne sarebbe bastato uno, per la mia formazione. Li vidi tutti.

Specie nella conversazione, sorridente e complice, con Anna Pavignano, che fu per anni la compagna del giovane Troisi nonché la sua co-autrice, il film di Martone riporta alla luce – anche la luce del mare alle spalle di Anna – quel clima di smisurato bisogno di conoscere, di allungare il proprio sguardo. Il senso era quello del viaggio, del mare aperto, come se ogni possibile meta fosse alla portata. Così che il quinto di sei figli di un ferroviere di San Giorgio a Cremano poté diventare oso dire “con naturalezza”, spinto dal talento così come dal clima dei tempi, uno dei più bravi e amati artisti italiani, passando per i teatrini off, le letture “difficili”, le chiacchiere interminabili, le assemblee fumose.

Non voglio discutere qui – anche se è una discussione importante – quanto quell’indigestione di cultura e di arte fosse davvero alla portata di così tanti stomaci. Quanto ci sia stato di velleitario e quanto di presuntuoso: la presunzione di “sapere tutto”, di possedere le chiavi del mondo, è la benzina, tra l’altro, del fanatismo ideologico. Disse Enrico Fenzi, ex brigatista e persona di alta intelligenza, a Sergio Zavoli nella Notte della Repubblica: la nostra vera colpa fu la superbia. Forse anche la larghissima maggioranza di quei ragazzi rimasta mite e ragionevole, poi diventata parte attiva e determinante di una società che in gioventù pareva ripudiata, qualche eccesso di orgoglio intellettuale ancora se lo porta dentro. Specie nel giudizio sulla cultura molto cheap (più che pop) che a partire dagli Ottanta chiuse la breve stagione della cultura intesa come un iter di cambiamento. Come superamento di se stessi.

Ma non è questo il punto. Il punto – così ho pensato guardando il film di Martone – è che nessuno di noi ormai pensa, oggi, che sia possibile replicare, prima o poi, una stagione di passione per la cultura così intensa e così coinvolgente. Seppure con altri materiali, altre correnti di pensiero, altri mezzi espressivi, un sommovimento culturale ed esistenziale altrettanto potente è, mi sembra, al di fuori di ogni ipotesi. Ci saranno altre rivoluzioni – fanno parte del Dna delle società umane – e almeno una, quella tecnologica, è già ampiamente in atto, e forse si è mangiata tutte le altre. Ma una rivoluzione fondata sulla cultura, sulla parola, sui libri: quella non è più nel novero delle cose.

Ci sono cause abbastanza evidenti da indicare, anche se grosso modo. Le televisioni di Berlusconi, si dice sempre. Volendo dire: ha stravinto l’ovvia trovata, alla portata anche dei più scarsi uffici marketing, che “la gente” non necessiti di “cose difficili”, che le basti sbarcare il lunario e consumare. Le domande esistenziali, dopo tutto, sono un lusso, e non solo per il figlio di un ferroviere di San Giorgio a Cremano. Lo sono per tutti. Un bene secondario, direi, in rapporto a quello primario, che è sopravvivere, non patire la fame e il freddo. Il capitalismo ha sfamato i suoi sudditi: non si pretenda che sappia renderli anche sapienti…

Poi, certo, il web, il radicale mutamento dei tempi e dei modi della comunicazione. Per non farvela lunga, io oggi un piano sequenza di venticinque minuti non lo guarderei nemmeno se me lo ordinasse il medico. Leggo e guardo in maniera infinitamente più convulsa e spezzettata. E sono un signore quasi settantenne, formato sui libri, sui romanzi lunghi e sui film lunghi. Che in teatro non si è fatto mancare niente – indimenticabile un monologo di Gabriele Lavia su Strindberg, tre ore abbondanti, oggi simulerei un malore pur di uscire a metà.
È cambiato tutto ed è cambiato per tutti, e va bene. Ma resta il sospetto che niente, però, possa cambiare davvero fino a che, non so dove non so quando, un po’ di ragazzi si fermino a pensare e a parlare di cose di indicibile ingombro – tipo: il senso della vita – e decidano che l’unica rivoluzione possibile, a questo punto, è uscire dai ranghi, ignorare il ritmo (pazzesco) della comunicazione e rimettersi a studiare. Comunicazione e cultura non sono la stessa cosa. È possibile, anzi, che la prima sia il contrario della seconda, e stia cercando di ucciderla per imporre al mondo la sua dittatura.

*****

Lo so, il pezzo che avete appena letto è terribilmente da “boomer”. Risente di un “calco” originario inconfondibile (uno che a vent’anni ha visto Loteanu e Tarkowskij lo riconosco dall’odore…). E allora, per spalmare un po’ meglio nei decenni questo mio lamento (o tempora, o mores) do la parola a Claudio. Che potrebbe essere mio figlio. Ed è perfino più perplesso di me.

“Caro Serra,
ho 43 anni e la leggo da quando ne avevo 19. Non mi sento giovane ma allo stesso tempo non sono vecchio, credo di sentirmi addosso esattamente la mia età anagrafica e condivido pienamente quanto da lei espresso nel post su maschere e volti. Posso confessarle che negli ultimi anni è diventato dominante in me un sentimento di vera e propria stanchezza che unita al disgusto ha ridotto drasticamente, quasi annullato, il tempo trascorso davanti alla televisione o comunque dedicato alla gran parte dei canali informativi. La presenza sempre più dominante di volti artefatti, di personaggi mediocri e di notizie ridicole, di palinsesti riempiti da influencer pettegole, da grandi e piccoli fratelli, da personaggi che non intendono invecchiare, mi ha allontanato dalla televisione, da qualsiasi tipo di social, incanalando la mia esigenza informativa verso siti specifici, giornali e libri”.
“Bisogna prendere atto, secondo me, del trionfo di quell’Edonismo Reaganiano di cui tanto si è parlato e scritto. La società è oggi società dello spettacolo ed è trasversale a vecchi e giovani, destre e sinistre, buoni e cattivi. Qualsiasi discorso serio sulla Vita, sul Divenire, sulla condizione umana, è stato marginalizzato, confinato ad ambiti di nicchia. Credo che, in questo contesto, rientri pure il tentativo di rimozione del concetto di Morte: noto da anni che nel discorso pubblico, nei titoli dei giornali, non si muore più, al massimo si scompare; la scomparsa, un tempo dedicata a precisi casi di cronaca avvolti nel mistero – Ettore Majorana, Emanuela Orlandi, Ylenia Carrisi – oggi riguarda tutti: scompare la regina Elisabetta, scompare Maurizio Costanzo… è una scelta stilistica. Nella società dello spettacolo deve vincere la bellezza, anche se posticcia, e deve scomparire la morte”.
Claudio

Per salvare me e Claudio dal sospetto di essere troppo di cattivo umore (ci sono giorni che capita…) cade a fagiolo la lettera del saggio Gabriele. Che potrebbe essere figlio di Claudio e dunque mio nipote. E invita tutti, saggiamente, a relativizzare certi “passaggi d’epoca” che fanno venire la labirintite.

“Buongiorno,
sono Gabriele, ho 17 anni e mi sono sentito coinvolto dall’ultima mail, visto che si citavano i giovani. Sono fermamente convinto che i social non hanno fatto altro che mettere in evidenza delle caratteristiche umane già presenti nel nostro DNA, perché degli strumenti che esistono solo da qualche decennio non sono in grado di cambiare in modo significativo la natura umana: la tendenza delle persone a presentarsi con una maschera addosso non è una novità, perché la maggior parte di noi ci tiene a fare una buona impressione. Nella mia esperienza, infatti, i social sono solo un biglietto da visita, aggiornato di continuo per condividere altre informazioni che possono contribuire alla creazione di un’immagine pubblica”.
“Quando mi informo su una persona attraverso Instagram non cerco una rappresentazione accurata, ma mi aspetto di trovare proprio una maschera, scelta appositamente da chi gestisce quella pagina. Io stesso, che uso i miei canali social per fare attivismo, quando pubblico qualcosa (specie se è un video) recito una parte, diventando un vero e proprio personaggio. Non vedo nulla di strano in questa tendenza: penso sia legittimo voler dare una buona impressione di sé nel proprio ‘biglietto da visita virtuale’; ovviamente fingere in ogni situazione non è per nulla salutare (proprio perché la maschera non va indossata nella vita di tutti i giorni), ma i social non sono necessariamente il luogo dove essere sinceri”.
Gabriele

Grazie Gabriele, soprattutto perché metti al sicuro “la natura umana” da certe futilità dell’epoca. Sappi comunque che la natura umana è nelle tue mani, adesso, molto più che nelle mie. Dunque datti da fare. È il tuo turno.

*****

Chiudo pubblicando un WhatsApp che mi sembra molto “sessantottino” e dunque in tema, che ho ricevuto dal mio amico Michele Milani, chef, generazione X. È un breve “anti-Vannacci” che mi sembra efficace e sottoscrivibile.

«“Al contrario”? Una società che ti fa lavorare più tempo di quanto tu possa dedicare a te stesso, una società in cui un Paese che per un secolo ha migrato in cerca di una vita migliore oggi ringhia con chi sta arrivando per gli stessi motivi (e non dite che gli italiani lavoravano, lavoravano perché venivano messi nelle condizioni di lavorare), una società in cui la Mariella di Abbiategrasso, terza elementare, mette in discussione le teorie di medici e scienziati e trova pure seguito sui social, una società in cui c’è chi vuole decidere chi e come devi amare, una società che ostenta la propria ignoranza anziché migliorarsi culturalmente… Questo è il mondo al contrario».