L’uso della violenza
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L’uso della violenza
Michele Serra
Martedì 9 aprile 2024

L’uso della violenza

«Credo sia imprescindibile la libertà d’espressione, credo sia altrettanto imprescindibile la libertà di critica. Credo sia sempre esecrabile e ottusa la censura, credo che l’idea che “si possa dire tutto, mostrare tutto”, sia altrettanto esecrabile e ottusa»

Una locandina del film Lo chiamavano Jeeg Robot (foto Ansa)
Una locandina del film Lo chiamavano Jeeg Robot (foto Ansa)

Me l’ero perso, Lo chiamavano Jeeg Robot, quando uscì nel 2015, e l’ho recuperato l’altra sera. Gran film d’azione, il regista Gabriele Mainetti e l’ottimo cast meritarono premi e lodi. Fece un buon incasso. Sono rimasto fino all’ultimo fotogramma con il fiato sospeso, come si dice – trama avvincente, storia ben raccontata, regia solidissima. Ma anche con lo stomaco stretto in una morsa. Violenza a quintali e sangue a catinelle, mutilazioni e scene di sadismo, un cozzo ininterrotto di corpi furibondi e scempiati in un habitat, quello della Roma criminale e sub-criminale, di non ordinario abbrutimento morale e fisico. (E anche verbale: per capire i dialoghi ho dovuto mettere i sottotitoli in italiano. E non sono un accademico della Crusca, sono un normale spettatore munito, per giunta, di un buon orecchio per i dialetti e le parlate locali, romanesco compreso).

Il tema, la violenza nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, è di quelli che lasciano il dibattito sempre aperto. Il classico “hanno tutti ragione”. Ha ragione chi considera un dovere dell’arte, o comunque una sua legittima facoltà, spingere lo sguardo anche dentro gli aspetti più efferati della vita sociale e dell’esperienza umana. Metà della grande letteratura, del grande teatro e del grande cinema non esisterebbe se gli autori avessero deciso di “ingentilire” la materia trattata: che è il genere umano, mica altro. E il genere umano non è un bello spettacolo. Il male esiste, l’uomo ne è al tempo stesso la vittima e l’artefice, e dunque non è neppure pensabile evitare di rappresentarlo.
Ma ha ragione anche chi non ha simpatia per la violenza trasformata in show, in spettacolo per tutte le tasche, con il rischio di banalizzarla (ovvero di farne un “genere”, come le pistolettate e le scazzottate nei western), e al tempo stesso rendendola oggetto di emulazione. È vero che nella serie Gomorra – per citare i classici – si parla e ci si comporta come parlano e si comportano i camorristi veri; si riproducono e si svelano, come dire, i “modi di produzione” del male; ma è fortemente probabile, pure se indimostrabile, che quel modello antropologico, canonizzato da quella e altre saghe apparentabili, possa avere fatto breccia nei settori meno difesi del pubblico, i più vulnerabili. Un conto è se il criminale è tuo zio, o il vicino di casa. Altro conto se è una star televisiva, e tutti gli chiedono l’autografo per strada. Cambia. Eccome se cambia.
Dice: ma anche Dostoevskij raccontava il male. Ma non lo leggevano cento milioni di persone, né dai Demoni venne tratta, all’epoca, una serie tivù; e non cogliere la differenza significa non capire che cos’è la società di massa, e non volersi chiedere come funziona.

Non so prendere posizione, in questo dibattito. Credo sia imprescindibile la libertà d’espressione, credo sia altrettanto imprescindibile la libertà di critica. Credo sia sempre esecrabile e ottusa la censura, credo che l’idea che “si possa dire tutto, mostrare tutto”, sia altrettanto esecrabile e ottusa. Riconosco l’importanza rivelatrice di Gomorra, detesto la fascinazione di massa per Gomorra. Non ho dunque una posizione “ideologica” da esporre.
Voglio solo raccontare di me come spettatore, di come la mia “tenuta”, di fronte alle scene di violenza, stia progressivamente scemando nel corso degli anni. Come se ne avessi immagazzinata così tanta, di violenza riprodotta, dai film e telefilm “noir” della mia giovinezza all’odierno fasto del crimine riprodotto, sgozzamenti, sparatorie, stupri, stragi, urla di dolore e di odio, che mi si sono ostruiti i file. Non la tengo più, la violenza, la butto fuori come fanno i campi quando piove troppo, ho esaurito le mie capacità di assorbimento. Se vedo uno con il machete che mozza un piede a un altro (come in Jeeg Robot) qualcosa dentro di me suggerisce che quella scena – almeno quella – è di troppo.
Specifico: non è una saturazione morale o culturale, è proprio una saturazione fisica. Il mio corpo non è più capace di metabolizzare tutto quel sangue, tutto quel dolore. E quando, nell’ultimo film di Moretti, il mio coetaneo Giovanni irrompe sul set di un “noir” in lavorazione per fermare la scena di un ammazzamento che gli sembra gratuito, sciatto, non all’altezza della gravità della morte, ho provato una specie di giubilo interiore.

Dev’essere – anche – per via dell’età. Il nipote arrivato da poco. Le forze in calo, che suggeriscono quiete, amicizia, riflessione, finestre che si aprono su alberi e nuvole (che non significa, lo dico per le vestali dell’impegno politico, sempre pronte al rimbrotto, ignorare che il mondo è un macello a cielo aperto; lo so benissimo, e forse proprio per questo, perché ne ho le scatole piene del macello, alberi e nuvole mi sembrano meno scontati, più sorprendenti di noi altri umani, inguaribili gomorriani). Nemmeno nei regimi più militarizzati si viene considerati riservisti, quando si passano i sessanta. Non sono più reclutabile, se vedessi un machete direi “per carità, mettetelo via, qualcuno potrebbe farsi male”; le armi da fuoco mi facevano spavento anche da giovane, figuratevi adesso; quelle da taglio le sopporto solo per affettare il salame e spezzettare la cipolla, meglio ancora il porro, che è più gentile.

Poi c’è questa strana cosa che la vita è un cerchio, ma per davvero. A vent’anni, quando eravamo un po’ tutti figli dei fiori, mi chiedevo che mondo è un mondo nel quale mostrare un missile è ragione di orgoglio, e mostrare gli organi sessuali ragione di vergogna. Torno a chiedermelo adesso, sempre più spesso. Che mondo è un mondo che della violenza, dell’omicidio, della guerra non si vergogna. E anzi: della violenza, dell’omicidio, della guerra, ha fatto un florido comparto dello show business. Aperto a tutti. Non un mondo a parte, come il porno. No: uno spettacolo per famiglie.

In ogni modo: la satira esiste per difendersi da quello che spaventa – la satira, lo dico sempre, è una forma di difesa e di pudore. Nel 2020 scrissi, sul fu Espresso, un pezzo di satira sugli scontri tra bande giovanili romane, e sulla violenza come “moda”, come emulazione. Venni sgridato da qualcuno, nell’occasione, perché facevo satira sui poveracci (la violenza è spesso di pertinenza dei poveracci: nelle galere, non per caso, ci sono un sacco di poveri). La mia opinione è che se si fa satira senza remore sui ricchi e sui potenti, discriminare i poveracci significa considerarli indegni di attenzione. È un bel po’ che non vi propino i miei vecchi pezzi di satira, e questa mi sembra l’occasione giusta. Il pezzo, come dicevo, è del 2020.

C’è un solo modo per evitare che le risse tra gang di adolescenti degenerino: devono svolgersi sotto l’egida del Coni. Se il periodo di prova darà buoni esiti, è possibile che la rissa tra adolescenti sia una delle nuove discipline ammesse alle prossime Olimpiadi di Parigi. I praticanti, in tutto il mondo, sono già milioni. La specialità “parents” prevede anche la partecipazione dei genitori, che inizialmente assistono ai lati gridando «menaje a quer lurido!» e scambiandosi insulti tra loro, e nel secondo tempo possono entrare in lizza personalmente, anche con armi da fuoco, meglio se non denunciate.
Le regole: i partecipanti devono avere tra gli undici e i sedici anni. Dopo i sedici, si passa alle rapine a mano armata e alle violenze sessuali di gruppo, prima degli undici si possono praticare solo il piccolo spaccio, il furto in casa propria, la molestia alla compagna di banco e altre discipline minori. I colpi consentiti sono solo quelli bassi: sputo in faccia, calcio nei genitali, sfregio col coltellino. Vietatissimo il duello leale uno contro uno: si rischia l’espulsione immediata. Punteggio molto alto per il pestaggio di gruppo. Dai dieci contro uno in su scatta la menzione speciale della giuria.

Valgono parecchi punti anche l’aggressione ai soccorritori, con furto di ambulanza, e la delazione a carico di persone estranee ai fatti nel caso si venga arrestati. Si parla molto bene di Fabbio e Sabbri, due fidanzatini dodicenni di Tor Magnaccia che hanno messo in fuga a parolacce una volante della Polizia. Gli agenti, terrorizzati, hanno fatto appena in tempo a chiudere i finestrini prima di darsi alla fuga. ‘Non avevo mai sentito niente di simile in trent’anni di carriera’, racconta, ancora sotto choc, il viceispettore Loris Bravini, che dopo l’accaduto ha dato le dimissioni ed è entrato in monastero.

Ha fama di duro anche Dumbo Ambolari, giostraio quattordicenne, capo dei temutissimi Plippies, che hanno preso il nome dell’ambita cover per cellulari Plip, per avere la quale gli adolescenti di tutto il mondo sono disposti anche a uccidere. Soprattutto la Plip color senape, prodotta in pochissimi esemplari perché orribile, e dunque molto ricercata, pare sia alla base di vere e proprie guerre tra gang, con decine di omicidi. La colonna sonora Kill for a cover (in italiano “Uccidi per un dozzinale copritelefonino di plastica dal valore di undici euro, ma dai cinesi lo trovi anche a otto”) è il grande successo del trapper Kronzo, artista di riferimento dei Plippies. Ne esiste anche una versione, identica, del trapper Pao Paolo, e una terza del trapper Bigolo. Impossibile distinguere non solo le tre versioni, ma anche i tre interpreti, assolutamente identici se non per minimi particolari, come l’anello al naso: d’oro quello di Pao Paolo, di cachemire quello di Kronzo, di torsoli di mais quello di Bigolo. Oltre al genere trap, tra le gang di adolescenti va fortissimo anche il brap, molto simile al trap, ma ruttato anziché cantato.

Tra le gang minorili più note si segnalano i Burini, molto legati ai valori della tradizione, come lo sfruttamento della prostituzione. Nemici giurati delle droghe pesanti, bevono solo Frascati e nelle risse usano esclusivamente colli di bottiglia di vini di poco prezzo. Il loro indumento di culto è la canottiera Nando, che si trova solo nei mercati rionali, nella bancarella di Nando, tutto a tre euro. I loro nemici giurati sono i Mamiani’s, gang di figli di papà che affrontano gli avversari con colli di bottiglia di Borgogna o di Sassicaia. Molto temuti anche i Califanos, gli unici adolescenti che odiano il trap e cantano solo le canzoni di Califano perché le considerano molto più trucide. Infine si segnalano le Mancomorta, unica gang femminile conosciuta: pur di non frequentare i loro coetanei vivono chiuse in casa imparando il punto croce e leggendo Jane Austen e Virginia Woolf.

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Siamo di fronte al primo “giallo” di Ok Boomer! Un giallo letterario: cose grosse. La settimana scorsa vi avevo raccontato di avere ricevuto una busta gialla, mittente “Rigoni Stern”, contenente pagine fotocopiate del Sergente nella neve di Mario Rigoni Stern. Avevo pensato subito, dato il mittente, che me l’avesse spedita il figlio Gianni. Colpo di scena. Mi scrive Gianni:

“Caro Michele,
un’amica di mio fratello gli ha fatto pervenire il tuo post del 2 aprile ‘Mucche nella neve’. Ti ringrazio per quanto hai scritto ma il mittente della lettera non sono io. Avevo alcuni sospetti che sono poi risultati falsi, mi è rimasto un dubbio: e cioè che questa cosa l’hai creata tu. Ti faccio un solo appunto: non mucche ma vacche nella neve. Il mio progetto dura da 14 anni, se vuoi saperne di più posso spedirti del materiale, preferirei incontrarti magari quassù in Altipiano la prossima estate così ti posso portare a vedere i boschi devastati da Vaia e dal bostrico. Spero a presto, un caro saluto”.
Gianni Rigoni Stern

Gli ho risposto:
“Caro Gianni, no, non è una mia invenzione. È tutto vero, mi è arrivata la busta gialla, era composta esattamente come l’ho descritta, ero certo che fossi tu il mittente – chi altro? A questo punto, la busta gialla è un giallo. Chissà se lo risolveremo mai. In ogni modo la cosa è stata a fin di bene, perché ho potuto riportare all’attenzione alcune grandi pagine di tuo padre e rammentare la storia delle vacche a Srebrenica. Vacche, non mucche. Ma tutti pensano che le vacche siano mucche…”.
Michele
(nota: la mucca sta alla vacca come la chioccia sta alla gallina).

Riusciremo, con l’aiuto dei lettori, a risolvere il giallo della busta gialla? Per una volta, tra l’altro, non si tratta di individuare un colpevole, ma un meritevole… Resta da aggiungere che un bel gruppetto di lettrici e lettori mi segnala che Radio 3 ha appena mandato in onda l’audiolibro integrale del Sergente, letto da Andrea Pennacchi e disponibile su RaiPlay Sound. “Asciutto e poetico come pochi altri”, scrive Michela.

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“Zanzare mostruose” apre le danze, questa settimana, con una nota lieta, preziosa di questi tempi. Quando tutto sembra perduto, ecco un raggio di luce all’orizzonte. Marina segnala, dall’Unione sarda, questo titolo:

TERREMOTO A TAIWAN, NATA LA FIGLIA DI UN NUORESE

Saul ha estratto, dal Messaggero Veneto, questo avventuroso titolo:

PERDE IL CONTROLLO DELL’AUTO E FINISCE CONTRO IL CONTATORE DEL GAS: DUE FAMIGLIE SENZA CORRENTE

Ci si domanda, nell’ordine: come sia possibile colpire con un’auto un singolo contatore del gas; e che relazione ci sia tra il suddetto contatore e la corrente elettrica. Se l’automobilastro avesse colpito la centralina elettrica, avrebbe privato due famiglie della fornitura del gas?

Massimo ha conservato negli anni, dal lontano 2012, questo titolo involontariamente licenzioso dell’agenzia Ansa:

ALCOA: PASSERA, TENERLA APERTA COSTA

Giova ricordare che Corrado Passera, nel 2012, era ministro per lo Sviluppo economico del governo Monti. L’Alcoa un’azienda in crisi. I cognomi, nei titoli, possono essere molto insidiosi. Vedi, e con questo vi saluto, il titolo di RaiNews segnalato da Michael, nel quale il cognome di un cardinale genera un involontario equivoco:

MIGRANTI, ZUPPI: SALVARE CHI È A RISCHIO