La giusta distanza
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La giusta distanza
Michele Serra
Martedì 13 giugno 2023

La giusta distanza

Walter Bonatti sul K2 (ANSA/CARLO ORLANDI)
Walter Bonatti sul K2 (ANSA/CARLO ORLANDI)

Visto, e molto amato, Le otto montagne. Contiene tutta la potenza vertiginosa della montagna, che è la potenza della solitudine e della distanza. L’alpeggio, la pietra, la neve, la notte, il giorno, il torrente, il vento, cos’altro?

Il deserto e l’alta montagna (immagino anche l’alto mare, che ho frequentato poco perché mi sgomenta) sono due facce della stessa condizione: ci si sente piccoli e soli, esposti all’immensità del cosmo, in una condizione di asocialità che acuisce di molto la percezione di se stessi (del proprio spirito?). Nel film la voce del vento è quasi ininterrotta – la vera colonna sonora. Un ruggito implacabile, di una belva che non riposa mai. Mi ha fatto pensare che nell’Ecclesiaste – libro terribile della Bibbia ebraica e cristiana – il vento è ovunque, segna il tempo e forse lo divora. Il vento dell’Ecclesiaste ha fauci e spazza il nulla piatto – il deserto. Il vento di montagna scuote le vette, rimbalza, si arrotola in enormi vortici, gli resistono solo il cirmolo, che si abbassa per scansarsi, e gli ultimi larici dalla forma eroicamente ritorta (li ha torti la tempesta: mi piego ma non mi spezzo). E gli resiste l’uomo, ovviamente, riparato dietro una cresta o un masso e protetto dal suo sapere tecnologico: a vincere la paura delle cime, perfino più del razionalismo che scacciò il terrore degli spiriti maligni, poterono il Gore-Tex e il Vibram.

A Lecco, ai funerali di Walter Bonatti, nel 2011, vidi un bel campionario di “facce di montagna”. Alpinisti, guide, viaggiatori, qualche giornalista non stanziale, qualche intellettuale non televisivo. Francesi, austriaci, svizzeri, italiani. I suoi amici di una vita, le Alpi radunate in un grande prato. Vestiti andanti, parecchie barbe, corpi magri di camminatori, sguardi resi sottili dalla troppa luce. Facce molto intense, di uomini e (meno numerose) di donne. Pensai: sono forgiate dall’esposizione agli elementi, non dallo sforzo di piacere. Facce che guardano, non facce che si sentono guardate. Per dare l’idea, il contrario del lifting.

Mi si avvicina un signore di età indefinibile (non giovane, comunque), piccolo, secco, abbronzato, che pareva appena sceso da una cresta, o uscito da un rifugio.
– Lei è Serra?
– Sì, buongiorno.
– Devo farle una domanda.
– Mi dica.
– Le sembrerà una domanda strana.
– Pazienza. Me la faccia lo stesso.
– Quante fotografie di Berlusconi saranno uscite sui giornali?
– … Davvero non saprei… migliaia, immagino.
– Migliaia. Benissimo. Ne ha mai vista una di Berlusconi in montagna?
– … No. Adesso che mi ci fa pensare, non direi proprio.
– Ecco. È esattamente quello che le volevo dire.

Mi salutò e sparì.

Ripensandoci più tardi mi venne in mente che qualche foto di Berlusconi nel centro di Cortina, o di Courmayeur, probabilmente esiste. Ma stava entrando o uscendo da qualche illustre locale, o dalla casa di Bruno Vespa. Foto di “Berlusconi in montagna”, così come le intendeva quel signore, non ne ho mai viste – prego il fact-checker del Post a me addetto di soprassedere, nel caso ne trovasse una: si tratta, ne sono certo, di un fotomontaggio, o di una simulazione per conquistare il voto degli addetti alla funivia e dei maestri di sci.

Questa storia di Berlusconi e della montagna mi è rimasta molto impressa. Ci ho spesso riflettuto. Ancora di più questa mattina, 12 giugno, che Silvio Berlusconi è morto e chi gli ha voluto bene – moltissimi – si sente orfano. Per i commenti politici ci sarà tempo, ne scriveremo e ne leggeremo a tonnellate. Questo brevissimo racconto “alpino”, evidentemente, parla di politica molto indirettamente. Piuttosto prova a mettere a fuoco una profonda differenza esistenziale, estetica e anche etica. Chissà se contano di più o di meno, le differenze etiche ed estetiche, delle differenze politiche…

Effettivamente, l’antropologia che vi ho appena descritto per sommi capi – quella del funerale di Bonatti – è quanto di più distante dalle convention di Publitalia, da quei completi blu, quell’umanità ceronata, quelle hostess sorridenti, quei colori televisivi troppo vividi per essere veri. Volessimo buttarla in vacca (che è, per altro, animale da alpeggio) potremmo dire che la montagna “è di sinistra”. Ma per carità non facciamolo, che poi ci toccherebbe aggiungere che il mare è di destra, e mi scriverebbero Giovanni Soldini e Renzo Piano, a nome di infiniti altri, chiedendomi se sono diventato scemo.

Risaliamo, invece, fino all’inizio di questo scritto, dunque al concetto, credo fondamentale, di distanza. La montagna è importante, per molti, perché è distante dalla società, dalla città. Risponde al bisogno di frapporre uno spazio, un distacco, una cesura. Ed è una cesura così netta, direi così “drammatica”, che quando poi si ridiscende a valle si prova un sollievo almeno pari all’esaltazione della salita. Anche l’Ecclesiaste preferiamo leggerlo in una casa comoda e calda, le Otto montagne vederle su Netflix. Il vento se ne rimanga fuori, grazie.

Quando il giovanissimo Bonatti (che, lo dico per i meno vecchi, è stato forse il massimo protagonista dell’alpinismo “classico”, nonché, incredibile ma vero, una popstar assoluta nell’Italia degli anni Sessanta) faceva l’operaio nella nebbia lombarda, sognava la domenica per fuggire sulle Alpi a “ritrovare se stesso”, che è senza dubbio una frase fatta ma lo è di meno se pensi a un ragazzo di diciannove anni che va ad appendersi in parete per un paio di giorni, da solo o con un compagno di cordata con il quale scambiarsi una parola all’ora. Poi, come tutti, ritornava, e si godeva la doccia e un letto comodo. Ma la distanza l’aveva misurata tutta intera, fino all’ultima spanna percorribile.

Qual è la “giusta distanza”? Credo che ognuno alla sua maniera – anche se non è Bonatti, o il Bruno delle Otto montagne – l’abbia cercata anche se non esiste, non è quantificabile. È una ricerca, un tentativo, un disagio benefico. Ripensando al mio lavoro, per esempio, parecchio eccentrico rispetto alla vita di redazione e al normale cursus professionale dei giornalisti, capisco quanto abbia contato, anche nella scrittura (in difesa della mia scrittura, voglio dire), la ricerca di una distanza. Non saprei misurarla, a volte mi è parsa minima, a volte notevole, comunque è stato importante cercarla. Cuore, per esempio, e la satira in genere, è stata sicuramente la mia maniera di inseguire la giusta distanza. Credo che ognuno l’abbia cercata o la stia cercando, nella vita, chissà in quante maniere differenti, con quali successi e insuccessi, quante uscite di strada e quante fughe vittoriose.

PS – Secondo me anche Schlein, che proprio non vuole andare da Bruno Vespa, è alle prese con il problema della giusta distanza.

*****

“Caro Michele,
nelle cene che precedono le elezioni torna sempre il tema dei cretini. Insieme agli amici, prevalentemente di sinistra (ma si dovrebbero usare le virgolette ogni volta che si dice “di sinistra”), immancabile è il presagio della sconfitta. E la colpa? Dei cretini, ovvio. Certo, pare inaccettabile che un cretino debba avere lo stesso peso elettorale di uno intelligente. Ovvero io e i miei amici, ma nemmeno tutti. Ci vorrebbe dunque il voto con il coefficiente. Altro che uno vale uno. Certo, qualcuno dovrà però decidere quale coefficiente assegnare, ma ci penseremo alla prossima cena. Qualcuno lo dice e ride e qualcuno ride perché non lo direbbe mai. L’unico che non ride è l’amico di destra, che dice che noi di sinistra siamo da sempre più fascisti di loro, e questa ne è la prova. Di certo i cretini sono tra noi, anzi stai a vedere che in realtà i cretini siamo proprio noi. Quando provo a comprendere la politica, la certezza di non esserlo l’ho persa davvero”.
Matteo

Caro Matteo, se penso che vanno a votare anche quelli di QAnon, o i terrapiattisti, non mi sento bene. Ma del suffragio universale possiamo dire, come della democrazia, che ce lo teniamo stretto perché tutto il resto è molto peggio. Se è vero che uno-vale-uno comporta la certezza che il voto del cretino (o del farabutto) vale quanto quello del pensoso, e dell’onesto, è pur vero che nessun criterio di “selezione elettorale” reggerebbe a un vaglio etico, e anche funzionale. Non esistono criteri accettabili e condivisi per distribuire il distintivo del cretino e dell’intelligente, dell’elettore cosciente e di quello cialtrone, anche se, come è evidente, vanno a votare anche i cretini e i cialtroni. Dunque, niente “patente per votare”.

C’è niente da fare: con la cretineria (anche la nostra) dobbiamo imparare a convivere, come si fa con una malattia endemica, cronica e inestirpabile. Per altro, correggendo l’osservazione del tuo e dei miei amici “di destra”, è abbastanza faticoso anche convivere con noi “di sinistra” (giusto applicare le virgolette a entrambe le categorie). Perché non è vero che siamo fascisti: ma rompicoglioni, sì.

“Caro Michele Serra,
mi ha fatto molto piacere il suo post sulla stupidità e il ricordo degli scritti pungenti di Fruttero e Lucentini. Gli autori più amati da mia madre, che detestava i cretini con tutta l’anima. Ho molti ricordi legati al signor Fruttero, quando lo incontravo a fare la spesa, oppure quando ci capitava in negozio ad acquistare le risme di carta per battere a macchina. A volte si fermava, incuriosito dai campionari di colori ad acquerello e olio, dagli espositori con centinaia di colori di matite e pastelli, dalle carte particolari e attrezzi per artisti che vedeva esposti. Perché era certamente una persona curiosa, nonché gentile e riservata; mostrava una certa ritrosia e timidezza di persona schiva. Sotto una parvenza che suonerebbe di “basso profilo” agli occhi di un osservatore superficiale e disattento, stupido appunto, si sentiva il grande lavorio di un cervello brillante, che non aveva bisogno di mostrare o sfoggiare alcunché. Né di fare tante parole. Parlare poco, osservare molto, pensare, ragionare e, alla fine, scrivere le cose giuste. Chissà… nell’era dei social, lui e Lucentini avrebbero saputo aggiornare “Il cretino è per sempre” senza difficoltà. Gli spunti non sarebbero mancati. Pure troppi”.
Laura Beltramino

Cara Laura, mi ha fatto venire nostalgia di Carlo Fruttero. Ospite da Fazio, parlava della vecchiaia con spirito ilare e compostezza stoica. “Dicono di me: Fruttero? È ancora lucidissimo”. E sorrideva. Raccontò anche di quella volta che si ritrovò alla Biennale di Venezia con le espadrillas gialle, perché aveva dimenticato a casa tutte le altre scarpe. Ma tutti pensarono a una stravaganza da intellettuale.
Mi ha fatto anche venire voglia di visitare la sua cartoleria (colorificio?). Insieme alla drogheria, il colorificio è il negozio che amo di più al mondo. Mi fa rimpiangere di non essere un pittore.