I’m just Ken
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I’m just Ken
Michele Serra
Martedì 23 gennaio 2024

I’m just Ken

«Avevo gli occhi umidi quando Barbie, tenendo per mano la sua anziana creatrice e potendo vedere, per mezzo di lei, squarci della vita reale, ovvero dell’imperfezione dolorosa e gioiosa nella quale tutti viviamo, decide di abbandonare il felice (e finto) status di bambola»

(Warner Bros/Entertainment Pictures/ZUMAPRESS.com)
(Warner Bros/Entertainment Pictures/ZUMAPRESS.com)

Da quando sono bambino detesto Barbie, i suoi capelli di plastica, le sue casette di plastica, i suoi vestiti di plastica e la sua vita di plastica. È un’ostilità che non riguarda le bambole in quanto tali; nemmeno la plastica in quanto tale; riguarda proprio lei. Così ho opposto una tenace resistenza al film, nonostante le molte opinioni, lette e sentite, che ne dicevano un gran bene, o anche un certo male, segno che Barbie (contro ogni previsione) tra le sue facoltà impreviste ha quella di far discutere. Ma immaginavo due ore di quel rosa troppo rosa, di quel biondo troppo biondo, di quel kitsch americano che spalma sulla vita gli stessi colori e la stessa stucchevolezza dei marshmallows; e mi sembrava un’impresa al di là delle mie capacità.

Poi il senso del dovere ha prevalso. Sapevo bene che era mio dovere vedere quel film. Le cose di cui tutti parlano non sempre sono imperdibili, ma a volte sì, capita che lo siano. I successi planetari non sempre cambiano lo stato delle cose, anzi generalmente tendono a confermarlo, a replicare il canone, a rassicurare i gusti correnti. Ma a volte, invece, aggiungono qualcosa, cambiano qualcosa, e lo aggiungono e lo cambiano nella proporzione grandiosa che è propria della cultura di massa.

Beh, il senso del dovere serve, eccome: costringendomi a vedere Barbie, mi ha impedito di perdere un bel film, e forse addirittura un film importante. Superati i primi cinque minuti, dunque superata la repellenza per il rosa troppo rosa, il biondo troppo biondo e la plastica troppo di plastica, entri in un viaggio vorticoso, intelligente, tagliente, anche molto esilarante, dentro il sistema binario per eccellenza, femmina e maschio. So che il film, forse proprio per la drastica “binarietà” della sua impostazione (stereotipo del maschio versus stereotipo della femmina) ha provocato un vivace dibattito in quel mondo che discute animatamente sui generi, sul patriarcato, su come sortirne o come sovvertirlo.

È un dibattito nel quale non oso addentrarmi più di tanto, per averne perso parecchie puntate decisive e dunque (anche) per mancanza di un linguaggio adeguato. Certo, si intuisce che il cozzo – quasi da teatro dei pupi – tra maschile e femminile che dà vita a Barbie possa avere urtato chi mette in discussione il genere in quanto tale: il film è risolutamente cisgender, femmine femminili contro maschi maschili. E si può anche capire che il finale del film (non voglio spoilerare troppo, per le poche e i pochi che non l’hanno ancora visto), nel quale la facoltà di generare diventa il passaggio decisivo per l’umanizzazione di Barbie – le bambole non hanno la facoltà di generare, le donne sì – possa avere sollevato, in qualcuno, il dubbio che la morale del film sia “conservatrice”: qualcosa tipo “partorirai”, magari evitando di aggiungere “con dolore”.

Ogni dubbio è legittimo, ogni critica da considerare, alla luce del fatto che di questa materia (il genere, il sesso, il patriarcato, l’autodeterminazione, spero di non avere dimenticato niente) molto si discute e molto ci si divide, qui in Occidente. Ma a me il film, oltre allo spietato humour sulla coglioneria maschile (lo stato maggiore della Mattel è degno dei Monty Python), oltre alla magnificenza coreografica di certe sequenze, vedi il balletto bellico dei Ken, oltre alla giocosa e geniale umanizzazione delle bambole e dei bamboli, oltre insomma ai suoi grandi meriti visivi e formali, dunque cinematografici, mi è sembrato emozionante per un altro aspetto.

È lo stesso aspetto che mi ha reso così caro, così amato The Truman Show, al quale Barbie, secondo me, è per non pochi versi apparentabile. Questo aspetto è la fuga. La fuga dalla finzione, dalla maniera prevista, dal ruolo assegnato. È prendere coscienza che ti è stata imposta una parte in commedia e che quella parte è una galera dalla quale devi evadere. Quando Truman, a bordo della sua barchetta, va a sbattere contro il finto cielo con finte nuvole che è stato la sua galera dorata, e trova l’avventuroso varco per sortirne (a piedi), e infine saluta lo spettabile pubblico e se ne va verso il mondo reale, al cinema ho pianto come un bambino (come si piange al cinema, non si piange da nessuna parte). E avevo gli occhi umidi anche quando Barbie, tenendo per mano la sua anziana creatrice e potendo vedere, per mezzo di lei, squarci della vita reale, ovvero dell’imperfezione dolorosa e gioiosa nella quale tutti viviamo, decide di abbandonare il felice (e finto) status di bambola. Mi è sembrato di rivedere, in altre forme, il lieto fine di The Truman Show: ovvero la fine dello show e della finzione, l’inizio della vita (e con esso, l’ammissione della morte).

Qui, in Barbie, la genitrice è complice; asseconda la fuga della sua creatura; là, nel mondo di Truman, il genitore, una specie di Dio Padre gonfio di boria, cerca fino all’ultimo istante di ostacolare la fuga del figliolo. Credo che anche questa circostanza, non secondaria, debba animare il dibattito “di genere” sul film Barbie. Spero anche che un ulteriore elemento si faccia strada. Lo riassumo in poche parole. Non è solo quello che si racconta, è come lo si racconta ad avere valore. La forma, nelle cose d’arte, è sostanza. Barbie è un film dannatamente ben fatto. La sua regista, Greta Celeste Gerwig, ha appena compiuto quarant’anni. Il vecchio boomer si genuflette, grato, di fronte alla millennial che lo ha divertito, commosso, convinto, coinvolto.

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“Carissimo Michele,
mi chiamo Marco Imperato e faccio il magistrato. Volevo condividere con te una riflessione che mi suscita la polemica di questi giorni sulla sentenza in relazione al ‘saluto romano’ e che scaturisce proprio dal fatto di essere abituato a guardare le cose con gli occhiali del giurista. Abbiamo così tanto delegato le battaglie politiche e culturali al diritto penale da lasciare l’impressione che un’assoluzione sia una benedizione. Tuttavia il processo stabilisce soltanto se è stato commesso un reato, al di là di ogni ragionevole dubbio. Niente altro dice o deve dire sulla qualità etica o culturale di una condotta (tanto meno ovviamente dice qualcosa della persona, perché giudichiamo responsabilità personali per fatti specifici e non le persone, che trascendono specifici comportamenti). Il panpenalismo italico, la latitanza della politica e di un dibattito culturale serio hanno prodotto questa aberrazione del processo, che da strumento di accertamento è divenuto gogna cui assegnare le condanne sulle persone, ma quindi anche per converso il luogo in cui un’assoluzione (magari anche per prescrizione o per contraddittorietà della prova, oppure perché il fatto sussiste ma non costituisce reato) finisce per assegnare anche una valenza etica e un certificato di qualità morale. Quando il processo penale si attribuisce anche questo potere la deriva verso lo stato etico è iniziata. Se avete dubbi sul rischio di una tale degenerazione e di un simile slittamento di funzione, guardate gli orrori della polizia morale iraniana…”.
“Quindi: lasciamo il complesso dibattito giuridico ai giuristi (seguendolo con interesse, per carità, ora però mi interessa il dibattito pubblico generale e non la questione in diritto); riportiamo la riflessione sul significato politico di una condotta (e sulle conseguenze di questa) e sui valori in gioco nell’alveo del dibattito pubblico, politico (appunto) e culturale. Grazie dell’attenzione e soprattutto enorme riconoscenza per la pacatezza, l’ironia e l’intelligenza con cui dialoghi e ci stimoli a riflettere”.
Marco Imperato

Caro Marco Imperato, “panpenalismo” è una parola che mi mancava, grazie per avermela regalata. La tua lettera ha un solo difetto: esprime meglio di quello che fin qui sono riuscito a fare ciò che penso della intera “questione giudiziaria” italiana. Penso che sulla giustizia sia stato scaricato un peso enorme e ingiustificato, e questo sia avvenuto proprio per la debolezza e la viltà della politica. Esultai anche io, molto giovane, per Mani Pulite, senza rendermi conto che si stava delegando alla magistratura, nei fatti, un compito etico e politico che invece non le spetta. Quel compito spetterebbe, semmai, all’impegno politico e al giudizio di ogni cittadina e cittadino.

In sintesi: il saluto romano mi fa schifo, il fascismo somma alla sua nera storia una patina di cialtronesco che, da italiano, mi avvilisce, il fatto che al governo e nelle istituzioni repubblicane ci siano (anche) conclamati fascisti mi indigna; ma pretendere che il problema sia risolvibile attraverso provvedimenti giudiziari mi sembra puerile e perfino ipocrita. Se tanti italiani sono ancora fascisti non è – se non marginalmente – un problema penale, laddove qualcuno, singolarmente, violi le leggi vigenti. È, prima di tutto, un gigantesco problema politico. Allo stesso modo, non ho mai preteso che potesse essere la magistratura a decretare l’indegnità di Berlusconi e della sua pittoresca corte di cortigiane e di ruffiani: avrebbe dovuto essere l’elettorato italiano a capirlo, e il fatto che in larga maggioranza non l’abbia capito certifica il fallimento politico e culturale di quelli come me.

Consentimi di aggiungere una notazione personale. È morto da poco mio suocero, Ferdinando Zucconi, che fu presidente della Corte di Cassazione. In pensione già da molti anni, detestava il protagonismo mediatico di molti magistrati e la confusione dei ruoli tra politica e magistratura. Non ha mai concesso un’intervista, tanto era convinto della “neutralità” del suo ruolo. Aveva le sue idee politiche, le ha manifestate solo quando non indossava più la toga (fu forse il più anziano partecipante alla manifestazione romana delle sardine. Già molto claudicante, ci andò in sedia a rotelle dichiarando: “così mi si nota di più”). Penso che avrebbe molto apprezzato la tua lettera. Leggendola, ho pensato a lui. Grazie anche di questo.

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Il dibattito su buona e cattiva educazione è sospeso, diciamo così, per eccessiva partecipazione. Ringrazio i tanti che continuano a scrivermi e mi permetto di riassumere così, a modo mio, le molte decine (centinaia?) di mail arrivate sul tema. Non va ridotto a questione formale. Per esempio, sull’uso indiscriminato del “tu”, molti lettori suggeriscono di non arroccarsi: todo cambia, come canta Mercedes Sosa, e non è detto che il “voi” e il “lei” garantissero una maggiore dose di rispetto umano, e considerazione reciproca. La “buona educazione” è piuttosto una questione, avvertita quasi da tutti, di modi condivisi. Di accorgersi degli altri. Di creare, o ricreare, magari su basi nuove, spirito di comunità e considerazione reciproca. Dunque: serve più educazione non per ragioni “formali”, ma per urgenze sostanziali. Abbiamo bisogno di rispettare gli altri e di sentirci rispettati. Forza, dunque, ragazze e ragazzi, qualunque età voi abbiate: fate agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi.

E adesso, spazio a Zanzare Mostruose, che per chi ancora non lo sapesse è una piccola rassegna di titoli di giornale “sbagliati”, o malaccorti, o troppo enfatici, che prende il nome da un mitico titolo che apparve negli anni Settanta del secolo scorso, a caratteri cubitali, sulla prima pagina della Notte, altrettanto mitico quotidiano milanese della sera. Il titolo era: “Zanzare mostruose assediano Milano”. I capolavori servono a indicare la strada.

Ilaria segnala, da un imprecisato quotidiano siciliano:

LEO CLUB DI MILAZZO DONA QUATTRO SEDIE ELETTRICHE AL REPARTO DI NEONATOLOGIA DELL’OSPEDALE

Si ignora che cosa sia il Leo Club (una versione “alla mano” del Lions Club?), ci si augura che le sedie elettriche non siano quelle comunemente considerate tali.

Molto interessante il titolo di “nera” del Gazzettino segnalato da Cristina. Apre nuovi orizzonti sul fronte dell’ordine pubblico e della difesa del patrimonio:

SANTA MARIA DEL ROVERE: I LADRI SEGANO IL BALCONE MA LA VICINA SVENTA IL FURTO RIEMPIENDOLI DI DOMANDE

Sofia, su PerugiaToday, ha scovato questo titolo che sovrappone, con effetti molto suggestivi, la mancanza del freno a mano e quella dei freni inibitori:

AUTO SFRENATA A SPASSO PER IL PARCHEGGIO DEL SUPERMERCATO BLOCCATA DA CLIENTI E PERSONALE

Il giornale della Coldiretti Il Punto, per eccesso di sintesi, celebra la festa di Sant’Antonio, patrono degli animali, stabilendo un nesso di causa ed effetto molto improbabile:

ADDIO A UNA STALLA SU CINQUE, MUCCHE E PECORE IN PIAZZA SAN PIETRO

La segnalazione è di Guido. Un altro Guido segnala “il titolo meraviglioso di un allegro periodico chiamato Il notiziario di Bollate”:

SCONCERTO AL CIMITERO: LA NOTTE DI NATALE CROLLANO LE LAPIDI

Lo stesso Guido si domanda, e noi con lui: non c’era un momento migliore per crollare?

Tag: barbie