Il serio e il faceto
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Il serio e il faceto
Michele Serra
Martedì 9 maggio 2023

Il serio e il faceto

Tra i lettori meno giovani non sono pochi quelli che mi scrivono: leggevo anche Cuore, non ne perdevo un numero. A parte il piacere di scoprirci in contatto, loro e io, da così tanto tempo, la cosa mi ha fatto riflettere. Perché tra i due giornali, quello satirico degli anni Novanta e questo qui, la differenza è molto vistosa. Direi totale.
Il Post è un giornale decisamente serio – spero non si offendano il peraltro direttore e la valorosa redazione. Ha fatto della verifica delle fonti, del linguaggio ben temperato, del non conformismo nella scelta delle notizie i suoi punti di forza. Lo si legge nella speranza, se non nella convinzione, di non leggere balle. Verrebbe da dire che è un giornale “anglosassone” secondo l’idea, un poco inamidata, che noi italiani abbiamo dei giornali anglosassoni. Soprattutto è un giornale che, avendo rispetto per il giornalismo, diffida del giornalismo così come spesso, purtroppo, viene fatto.

Cuore era un settimanale di satira. Strillato, umorale, polemico. Verifica delle fonti: zero, anche perché non ce n’è alcun bisogno se dalla prima all’ultima riga scrivi, programmaticamente, il falso (la satira è una inesausta falsificazione della realtà. La parodia, che ne è forse l’ingrediente più solido e antico, è lo scassinamento di un modello allo scopo di individuarne, se si è bravi, la chiave retorica).
Avendo sempre avuto la fortuna di scrivere su giornali nei quali, tutto sommato, potevo “sentirmi a casa” (l’Unità, Cuore, l’Espresso, Repubblica, il Post) mi sono dunque domandato se c’è qualcosa che unisce due testate così diverse come Cuore, del quale fui giovane fondatore, e il Post, del quale sono anziano collaboratore, nonché l’ultimo arrivato. Come mai persone che frequentarono appassionatamente il primo (defunto ormai da quasi trent’anni) ora sono lettori fedeli del secondo? Mi sono dato questa risposta: sì, c’è qualcosa di sottile e al tempo stesso profondo che apparenta due esperienze così diverse. Questo qualcosa è un uso molto attento – dunque poco conformista – della scrittura. Oggi si direbbe: un’impostazione non mainstream. Una ostinata autonomia di linguaggio motivata da una lettura apertamente critica del mondo dell’informazione.

Cuore fu il primo giornale di satira italiano, e forse non solo italiano, la cui redazione era di soli giornalisti. Collaboravano i più bravi disegnatori satirici, ma a fare il giornale siamo stati (credo di non dimenticare nessuno) in otto: Andrea Aloi, Sergio Banali, Piergiorgio Paterlini, Carlo Marulli, Lia Celi, Alessandro Robecchi, Luca Bottura, io. Una sola donna, molto brava ma una sola: all’epoca non ci si faceva caso. Oggi, se entrassi in quella redazione, sarebbe la prima cosa che noterei. Per dire: si fanno anche dei passi in avanti, nella vita.
La nostra intenzione di partenza – anche grafica – era fare la parodia di un giornale “vero”, con tanto di titoli a scatola e “strilli” enfatici. Avevamo un vero e proprio culto per Cronaca Vera, irripetibile rotocalco pulp all’epoca (anni Novanta) ancora venduto, quel tipo di pubblicazioni delle quali si diceva, non so perché: è molto diffuso tra i militari.
Forse perché era davvero molto diffuso tra i militari.
È importante ricordare che il termine pulp, poi diventato, per esteso, l’attributo di qualunque forma espressiva di alto contenuto emotivo e di bassa qualità formale (cinema pulp, tivù pulp, letteratura pulp), nasce nel mondo dei giornali. Vuol dire “poltiglia” e si riferisce, in senso traslato, alla scadentissima fattura dei periodici popolari americani degli anni Trenta, stampati, appunto, su carta di ultimo rango, e zeppi di notiziacce sanguinolente. Notiziacce stampate su cartaccia.
Alcuni titoli di Cronaca Vera rimangono piccoli gioielli di satira involontaria. O forse magari volontaria, credo che neppure Umberto Eco sarebbe stato in grado di stabilirlo con precisione:

VIOLENTATA DALLO ZIO SU UN TAPPETO DI GRAN PREGIO
SEQUESTRATA DA UN CAMIONISTA IN UNA GROTTA PIENA DI GRANCHI

Dove si intende che se le due malcapitate non fossero state brutalizzate su un tappeto di gran pregio e in una grotta piena di granchi, non sarebbero state degne nemmeno di mezzo titolo di giornale.

I caratteri tipografici di Cuore erano gli stessi di Cronaca Vera. Soprattutto gli “strilli” (Orrore! Atroce! Che marciume!) che campeggiavano dentro grosse “macchie” nere, orlate di sinistri tentacoli di inchiostro, sopra il titolo in alto a destra. Volendo, quello che facevamo era una specie di ipergiornalismo: gonfiavamo il modello enfatico-sensazionalista del giornalismo sedicente “serio” per farlo infine esplodere, con grandi risate, come un pallone gonfiato.
Poi, come sappiamo tutti, vennero La Verità e Libero e l’ipergiornalismo smise di essere una prassi parodistica, un gioco linguistico. Divenne per davvero “informazione”, ritenne definitivamente di esserlo. Posso dire di essere molto contento che Cuore sia stato seppellito per tempo: per evitare troppe confusioni in edicola.
Quanto al genere pulp, siamo costretti a registrare la sua clamorosa vittoria a tutto campo: oggi prospera vistosamente sui siti dei principali quotidiani italiani. Ogni giorno leggo almeno quattro o cinque titoli di “nera” che non sfigurerebbero su Cronaca Vera.

Per tirare le somme: se mi sono abbonato al Post, e ora ci scrivo pure, è perché quando leggo un giornale preferisco che sia scritto pensando a che cosa si scrive, e a come lo si vuole scrivere. Non c’è proprio nulla di “spontaneo”, nella scrittura. È un lavoro che richiede dubbi, esitazione, pensiero, rispetto dell’intelligenza dei lettori e anche della propria, facilmente latitante quando si scrive “in automatico”. Non voglio che un giornale di informazione sia “divertente” – se voglio ridere, mi rivolgo a qualche buon sito di satira, o guardo le locandine del Vernacoliere. Credo che le parole siano davvero importanti, e valga la pena usarle avendo ben chiari gli ambiti, i generi, il contesto. Come se si sapesse sempre quello che si sta facendo.

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Vengono al pettine uno dopo l’altro i piccoli e i grandi nodi “generazionali” che Ok boomer!, a partire dal suo titolo allegramente anagrafico, ha inevitabilmente evocato. Questa settimana ho scelto due lettere che parlano di quanto sia cambiata – tra le tante cose che sono cambiate – l’esperienza di mettere al mondo un bambino. Da bravo boomer, tendo effettivamente a consegnare alla categoria delle cose “naturali” la procreazione come tutto ciò che avviene “da sempre” (l’espressione “da sempre” è tra le più detestate tra i post-boomers), senza pensarci sopra più di tanto. Le due lettere che seguono spiegano che invece è meglio pensarci sopra più di tanto.

“Sono una mamma di 45 anni, e sono diventata mamma a 41, molto più tardi di quanto avrei voluto (già questa è una caratteristica comune alla generazione X), il che mi toglie tanta della freschezza e della spontaneità che avrei avuto vent’anni fa. Forse sono meno spontanea, sicuramente ho meno energie, ma la mia età e la mia tendenza a cercare sicurezze nello studio mi hanno portato a informarmi con grande attenzione su testi scientifici, seguendo corsi online di psicologi e pedagogisti e incontrando specialisti per cercare di sentirmi all’altezza del mio nuovo ruolo di mamma”.
“Mi sono resa conto che il modo in cui oggi si affronta la genitorialità, proponendo un modello educativo che prevede la costruzione di un rapporto di fiducia e di rispetto reciproci con i figli, è distante anni luce da quanto sperimentato da noi nati negli anni Settanta e prima (ma forse anche un poco dopo). Quel che si propone oggi è un genitore autorevole e non autoritario, che modelli con il suo esempio il comportamento del figlio rinunciando a premi e punizioni, che accompagni attraverso la comprensione e la presenza calma anche le crisi emotive (ai miei tempi – ma credo anche ai suoi – si chiamavano capricci) di queste piccole persone la cui corteccia prefrontale, ancora immatura, non permette di controllare e gestire le emozioni (altro che intimazioni a tacere e intimidazioni fisiche) e che, soprattutto, abbia la fiducia di attendere i risultati a lungo termine del suo lavoro”.
“Ecco, la differenza tra l’esperienza di oggi e la genitorialità delle precedenti generazioni segna, nel mio quotidiano, la distanza maggiore tra me e mia mamma, tra me e mia nonna, tra me e le mie zie – nonne e zie che peraltro non capiscono e talvolta ostacolano quel che cerco di fare. Il bello è che, per quanti sforzi faccia, l’automatismo di riproporre vecchi schemi, quando la stanchezza e la fretta prevalgono su evoluzione personale e formazione, purtroppo riemerge e mi ritrovo a ripetere le frasi subite da bambina e a pronunciarle con lo stesso tono esasperato, perché, inevitabilmente, si tende a educare proprio come si è stati educati e quelle parole e quei toni restano incisi profondamente nella nostra coscienza. Ci troviamo insomma, noi della generazione X, nel bel mezzo di un ‘passaggio evolutivo’, nel tentativo di costruire qualcosa di veramente nuovo gettando via tutti gli strumenti che credevamo di avere e cercando di utilizzarne degli altri, completamente nuovi, che stiamo imparando a maneggiare in solitudine. Spero che il lavoro che stiamo facendo con tanta fatica venga raccolto dai nostri figli e che loro possano trasmetterlo, migliorato, ai nostri nipoti, portando avanti questa ‘rivoluzione gentile’ in favore di un’infanzia meglio accolta e capita”.
Francesca

“Ciao Michele,
mi lascia un po’ perplesso non leggere mai una nota positiva di qualche mio coetaneo. Io ho 36 anni, sono un millennial e condivido molte delle visioni dei miei coetanei che ti hanno scritto. Solo che se mi guardo intorno vedo anche tante cose positive che stiamo facendo noi 30/40enni. Ho 2 figli (lo so, rappresento una minoranza alla mia età) e da prima che nascesse la primogenita io e mia moglie abbiamo cominciato a documentarci piuttosto seriamente su quali fossero gli approcci educativi più validi. Abbiamo scoperto un mondo di professionisti, appassionati e semplici genitori ‘svegli’ che supportano i neogenitori in un percorso tutt’altro che facile. Non sto qui a raccontarti dell’educazione dei miei figli, non è questo il punto. Il punto è che stiamo riuscendo ad affrontare questo meraviglioso e difficile compito senza rivolgerci al ‘si è sempre fatto così’, ‘uno scapaccione non ha mai fatto male a nessuno’ eccetera”.
“Questo approccio ci ha creato qualche contrasto in più con i nostri genitori boomer, ma ci ha anche dato tanti strumenti per fare delle scelte più attive e consapevoli in tutti gli ambiti della sfera genitoriale: dalla scelta della scuola alla scelta del pediatra. Certo viviamo a Roma, siamo benestanti e abbiamo un lavoro decente, il che è senza dubbio un grande privilegio. Ma abbiamo una comunità attorno piuttosto solida, siamo soddisfatti della scuola che frequentano i nostri figli (!), del pediatra (!!) e anche del medico di famiglia (!!!)”.
Gabriele Conti

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La scorsa settimana ho pubblicato la lettera, piuttosto polemica, di Pietro Vereni, a proposito della “rassegnazione” dei terapeuti di fronte ai problemi dei loro assistiti, e di quanto sia diventato difficile dire a qualcuno “datti una mossa, non rimanere lì fermo a compiangerti” (il riassunto è mio). Sono arrivate molte lettere (di terapeuti e di assistiti) in buona parte contrariate da questa tesi; in minor numero, favorevoli. Questa di Vanessa mi è piaciuta perché tenta, secondo me riuscendoci, una sintesi.

“Buongiorno Michele,
vorrei raccontare la mia esperienza con una terapeuta, una psicoterapeuta cognitivo-comportamentale per la precisione. Pietro ha ragione quando dice che viene data molta importanza all’accoglimento, all’accettazione e alla validazione della persona che sta in quella condizione di oggettiva sofferenza. Quando mi sono rivolta a questa terapeuta era un momento molto buio per me, paura e ansie mi avevano completamente messa al muro e mi sentivo incapace di compiere anche i gesti più semplici. Lei ha sempre accolto e validato il mio stato d’animo, e questa è stata una cosa molto importante per me, perché in quel circolo vizioso che si era creato avevo bisogno di parlare delle cose che mi facevano stare così male, ma la paura di essere giudicata non mi permetteva di farlo con serenità”.
“Però un giorno mi ha detto una cosa che secondo me ha svoltato il corso della terapia: mentre le raccontavo che proprio non riuscivo ad affrontare una certa situazione, mi ha guardata negli occhi e mi ha detto: Vanessa, se ci fosse una tecnica, un modo per risolvere questo problema te lo direi. Purtroppo l’unica soluzione qui è prendere coraggio e fare le cose, a piccoli passi: ma devi uscire da questa zona di confort che ti sei creata”.
“Sembra una banalità, ma mi ha fatto capire che inconsciamente mi aspettavo che qualcuno prendesse in mano la mia vita e me la risolvesse con qualche magica tecnica della psicologia moderna, senza che io dovessi affrontare di petto quei mostri: forse è un po’ quello che dice Pietro quando parla di vittimismo, ansia, suscettibilità e narcisismo. In conclusione: non c’è niente di male nel cercare di aiutare qualcuno dicendogli ‘dai bello, tirati su, vediamo come si può uscire da questa condizione di merda’. Ma se poi questa persona non ce la fa ad uscire da quella situazione non dobbiamo giudicarla come debole, suscettibile o vittimista. Non sappiamo cosa l’ha portata a vivere quella condizione di sofferenza e magari non lo sa nemmeno lei, e se non sai contro cosa devi combattere come fai a sconfiggerlo? Forse un giorno questa persona sentirà una frase, incontrerà qualcuno, vedrà un film o ascolterà una canzone e si accenderà la lampadina che la farà uscire dal buio che a volte ci avvolge e che chiamiamo con nomi diversi (paura, ansia, crisi, depressione, sfiga). Ma se questo non accadrà mai l’unica cosa che potremo fare per cercare di aiutarla sarà accogliere, validare e riconoscere la sua sofferenza”.
Vanessa

Tag: cuore