Girerai il mondo
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Michele Serra
Martedì 15 agosto 2023

Girerai il mondo

La spiaggia ligure di cui si parla, in un'immagine dell'autore creata con l'effetto non-ho-pulito-bene-l'obiettivo
La spiaggia ligure di cui si parla, in un'immagine dell'autore creata con l'effetto non-ho-pulito-bene-l'obiettivo

Ferragosto! Si ha un bel dire che le ferie sono una condanna, una deportazione di massa, un rito conformista. C’è comunque qualcosa di dolce, di indolente, di finalmente arreso, nel grande bivacco in riva al mare lucente, nei fondovalle ombrosi e perfino nelle città vuote. Fa ancora molto caldo, cantano le cicale e dormono i cani e i gatti. L’anguria e il vino bianco sono in frigo – non ci serve nient’altro.
Sono tornato, una sera di queste, nella spiaggia ligure dove fui bambino (il passato remoto è d’obbligo) e i miei due figli anche. Dopo il tramonto una grande tavolata era stata allestita sulla sabbia, a pochi metri dal mare. Una ventina i commensali, amici di mia figlia, tutti dai trenta ai trentacinque, tutti “amici del mare” che poi la vita riconsegna ad altri luoghi ma quasi ogni agosto si ritrovano lì, a dire come sono più belle le isole greche, la Sicilia, la Sardegna, Porquerolles, Minorca e tanti altri posti; però il richiamo dell’infanzia, o la seconda casa dei genitori, li riportano almeno per qualche giorno d’estate su questa spiaggia – come tutte le bestie migranti, sappiamo bene dov’è il nido dal quale siamo partiti.

Molti li ricordavo bambini, vent’anni fa, e non li avevo visti più. Eravamo solo due fuoriquota. Io che navigo verso i settanta e mio nipote Carletto, che ha quasi due anni. Il nonno e l’infante. Il resto era una massiccia rappresentanza di millennials, insomma donne e uomini in età fiorente, e vederli tutti assieme è stato bello, esteticamente bello e umanamente rassicurante: la sola vera differenza, quando si invecchia, è se dolersi oppure rallegrarsi del fatto che la vita è splendidamente indifferente alla nostra morte, e quando non ci saremo più tutto sarà ancora vivo e intatto. E nuove tavolate in riva al mare saranno apparecchiate e sparecchiate, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Beh, ma non è per questi pensieri da vecchio che vi sto raccontando di questa cena. È perché, chiacchierando e bevendo un ottimo Pigato (troppo, ma le notti d’estate sono lunghe e seduttrici), ho potuto misurare, in chilometri, la distanza tra la mia e la loro generazione. Che non è solo culturale o politica o di ambizioni o di delusioni. È fondamentalmente geografica. Due hanno sposato due ragazze spagnole. Un altro una francese. Una che sta a Londra ha una compagna a Copenaghen. Una aspetta un bambino da un francese. C’è chi, nel lavoro, si è fatto le ossa a Singapore, chi a Parigi, chi a Londra. Parlavano tutti un inglese fluente e naturale, anche tra di loro, non come una seconda lingua ma come la lingua del lavoro e del viaggio, la lingua comunitaria.

Quasi tutti erano arrivati lì in aereo, aeroporto di Nizza, poi auto in affitto o amici che li vanno a prendere. Quasi tutti si fermavano pochi giorni, o un paio soltanto, e avevano già in tasca, pardon nello smartphone, biglietti aerei per altre destinazioni.
Ho pensato all’equivalente (anche come classe sociale: ceto medio e ceto medio-alto) degli anni Ottanta, quando trent’anni li avevo io. Di matrimoni “misti” non ne ricordo uno, italiani sposavano italiane e viceversa. Men che meno ricordo coppie gay. Si arrivava a quelle spiagge rigorosamente in automobile, dalle città del Nord, le madri e i bambini non si muovevano per un paio di mesi, i padri li raggiungevano per il week-end e poi si fermavano due o tre settimane in agosto. L’inglese lo sapevamo poco, l’astratto inglese liceale, non il solido parlato di tutti i giorni.

Morale: eravamo infinitamente più provinciali. La nostra gittata “fisica” era limitata, non l’Europa ma il Nord Italia, la nostra unità di misura era il casello autostradale, non l’aeroporto, il nostro sguardo di conseguenza più corto anche se con l’ideologia molti di noi provarono (artificialmente?) ad allungarlo fino a farci pensare, nei primi anni della giovinezza, di essere addirittura “internazionalisti”. Magnifico concetto, però su quella spiaggia, ai tempi della mia infanzia e giovinezza, la sorpresa esotica era scoprire che qualcuna veniva da Biella, qualcuno da Vicenza e non dalle solite Milano e Torino. L’apparizione dei primi, sparuti ambulanti africani (negli anni in cui nascevano i miei figli) ci sembrò una sconvolgente irruzione di mondi lontanissimi dentro un perimetro fin lì solamente familiare, monocolore e monocorde.

Per i trentenni il mondo è, fondamentalmente, più noto e più maneggevole. Sarà l’Erasmus, sarà che dal paesello (l’Italia) si è invogliati a scappare per cercare futuro, sarà il web che il mondo, sapendolo leggere, te lo mette in tasca, pardon nello smartphone; fatto sta che io, nonostante la strada che ho fatto e nonostante qualche mio libro sia stato tradotto in nove lingue, insieme a loro mi sentivo di fatto un provinciale. Scafato, per carità, ma provinciale. E questo, al netto di ogni possibile distinguo, è un passo avanti e dunque una cosa bella.

Le luci del litorale, viste dalla spiaggia, sembravano una linea ordinata (e dire che in Liguria, di ordinato, non c’è un bel niente). La notte profumava di salmastro, di gamberoni rossi e di Pigato. Quasi nessuno fumava (noi alla loro età fumavamo come vaporiere). Due delle ragazze presenti a quella cena erano incinte. Chissà dove diavolo partoriranno, se a Londra, Madrid, Parigi o – come quando si torna nella stessa spiaggia – nelle città italiane dove sono cresciute. L’ultimo bicchiere è stato per loro.

*****

Lo so, non è necessario che me lo fate notare: il campione di ragazzi del quale vi ho appena parlato viene, nella media, dalle classi protette. Quella che una volta si chiamava borghesia. Una grande parte dei ragazzi italiani, forse la maggioranza, è rimasta ai margini del cambiamento che ho appena cercato di descrivere. E appena un paio di settimane fa, forse tre, ho scritto proprio qui che la differenza di classe è ancora, largamente, la più rilevante e la più inesorabile. Innescando l’arrivo di un nugolo di vostre mail. Molte decine. Noto che, su questo argomento, scrivono soprattutto i meno giovani: diciamo che sono quasi tutte “lettere dal Novecento”. Attendo con fiducia anche il punto di vista della futura umanità – i ragazzi. Non posso pubblicarvi tutti – Ok Boomer! diventerebbe interminabile –, questa è solo una prima ondata.

“Ho iniziato a lavorare che non avevo ancora 14 anni perché non avevo i soldi per continuare a studiare nonostante la media del 9. Nel corso degli anni lavorativi mi sono sentita dire: non può fare carriera perché non ha un titolo di studio, non può fare carriera perché è una donna, non può fare carriera perché ha un carattere che contesta e pretende di cambiare le procedure lavorative. Dovevo sempre dimostrare di essere più brava dei colleghi con titolo di studio. In un concorso arrivai prima davanti a nove concorrenti con diploma di scuola superiore. I dirigenti mi convocarono per dirmi che, come inquadramento, non avrei potuto usufruire del risultato. Mi chiesero di svolgere ugualmente un lavoro di quattro categorie superiore alla mia. Confesso: nel lavorare mi sono sempre divertita e solamente quando mi sono resa conto che non dovevo dimostrare le mie capacità ho minacciato la direzione aziendale di rivolgermi all’ufficio del lavoro. Risultato: mi venne riconosciuto un inquadramento adeguato. Ora sono una beata pensionata. Tra i miei ricordi vi è la gioia di quando, nella mia infanzia, la mamma prendeva la paga settimanale ed arrivava a casa con una porzione di stracchino e per me era la cosa più buona del mondo”.
Bruna

“Sono laureato, ma di padre operaio e madre casalinga-sartina. Sono nato nel 1951. In una famiglia operaia d’estate si vanno a fare i lavoretti da artigiani e parenti. Così ci si paga il gelato e non si sta in ozio. Mio padre lavorava in una azienda di ceramica sanitaria dove si lavorava a cottimo (e si prendeva la silicosi), portare un figliolo che svolgeva piccole mansioni permetteva di aumentare la quantità dei pezzi prodotti. Dalla quarta elementare, come altri figli di operai, sono andato in fabbrica. Dopo la terza media c’era già un posto per me, ma l’orgoglio di mia madre, il boom degli anni ’60 e le conquiste del movimento sindacale mi hanno spinto verso le scuole superiori e l’università. Non ero un cervellone, mi facevo promuovere. Ma ho sempre lavorato d’estate. E visto che il presalario non bastava, nel 1972 ho fatto il barista in un albergo in montagna per due mesi e mezzo. A 17 anni, durante le ferie di mio padre, ho fatto una settimana in fabbrica da solo. Un pomeriggio mi sono trovato nello spogliatoio con il responsabile sindacale. Mi ha chiesto se ero stato promosso e ha manifestato soddisfazione e dolore. Perché? Perché se avessi continuato a studiare e mi fossi diplomato sarei finito per essere uno contro di noi. Perché tutti quelli istruiti, gli avvocati, i giornalisti, i medici, i professori sono tutti contro gli operai. Gli assicurai che non l’avrei mai fatto. Ma gli rimasero gli occhi tristi, come di un adulto che acconsente per affetto alle promesse di un bambino, sapendo che non saranno mantenute. Mi sento un privilegiato, ma nella mia Spoon River ho fatto il nome di tutti gli operai del reparto dove lavorava mio padre”.
Lettera firmata
PS – a Barbiana ci sono andato in pellegrinaggio.

“Cari tutti, colpevoli veri e autocolpevolizzati. Sono un sessantenne (più boomer di così…) nato povero. Dignitoso ma decisamente povero. Dopo essere nato povero, visto che piove (quasi) sempre sul bagnato, mi è morto pure il papà. Avevo 9 anni. Pure sfigato. E ancora più povero. Però…. però… la mia mamma, negli anni successivi, si fece un mazzo degno di sette operai cinesi, mi responsabilizzò su questo fatto (non era difficile, era distrutta) e mi mise nelle condizioni di studiare. Tanto. E alla fine di questo studiare (tanto), diventai un Medico, e poi un Medico Primario (ora si dice Direttore). Non dimenticherò mai lo sguardo di mia madre alla Statale di Milano, il giorno della discussione della mia tesi di laurea. Come neanche il suo sguardo il giorno della discussione della mia tesi di specialità, soprattutto dopo i complimenti del Direttore della Scuola. Che erano per lei, non per me. Morale. Se nasci poveraccio e poi anche sfigato, in genere l’Italia ti dà qualche chance e se la sai cogliere puoi anche prendere il famoso ascensore sociale. Per cui, ricchi e famosi, non sentitevi in colpa”.
Giordano

“Sono del 1968 e non mi pare vero. O meglio, mi capita di sentirmi coetanea di Elkann e anche dei ragazzi compagni del suo famigerato viaggio, che pure (secondo me non è stato sottolineato abbastanza) viaggiavano come lui in prima classe. Non principalmente lotta di classe sociale, quindi, ma di classe anagrafica. In ogni caso, vorrei associarmi ai patologici del senso di colpa, categoria alla quale appartengo fin dal catechismo della prima comunione quando sentii dire che i bambini non battezzati come noi non avrebbero mai potuto sperare nel paradiso. Devo dire che la maggior parte delle persone che sono cresciute intorno a me non mi sembra siano state poi tanto scandalizzate da questa disumana idea crudele, direi affatto. Ho fatto una fatica enorme a rendere finalmente giustizia a quella bambina scandalizzata e conquistare l’autenticità che ho capito essermi necessaria quanto l’aria che respiro. La mia è una realtà provinciale, trovare qualcuno che resti interessato a questi argomenti dopo la terza parola è un’impresa; ogni ragionamento è in salita e contro. Concludo. Chi ha queste sensibilità, come tu dici, è in ogni epoca solo una piccola percentuale dell’umanità; non c’è progresso in questo. Se fosse vero il contrario, ora le condizioni per vederne un minimo, di progresso, ci sarebbero”.
Michela Cacchiarelli

“La classe sociale non è mai sparita come fattore cruciale strutturante le esistenze delle persone. E non su temi secondari: la differenza tra figli di operai e di professionisti si misura in salute, in anni di vita. La sinistra l’ha portata all’attenzione, per un centinaio d’anni almeno, e poi alla chetichella l’ha sotterrata per sostituirla con le categorie di rivendicazione moderne (sesso, orientamento sessuale, ecc.). Non che queste ultime non siano meritevoli di attenzione. Non che la questione di classe debba essere l’unico prisma attraverso il quale osservare il mondo. Fa specie però che proprio da sinistra venga questa grande omissione. Forse perché i figli dei sessantottini hanno parlato molto di lotte senza viverne lo scotto, e hanno urgenza di crearsi delle battaglie proprie e non di condurle per procura. Trovo incredibile che a proporre di togliere agli ignoranti (leggiamo: in buona parte poveri) il diritto di voto è tutta gente colta, studiata, lettori del post, de sinistra-sinistra. E queste persone parlano del diritto di voto alla stregua del pagamento delle tasse ai club (country club? golf club?). Non so cosa dire, credo che guardando indietro potremmo trovare un bilanciamento migliore tra il riconoscimento dell’ignoranza e l’accoglimento dell’ignorante. Probabilmente spegnere il brusio social con le annesse esigenze di esserci, di mostrarsi, di battibeccare, di puntualizzare e incontrare, invece, queste persone al bar e discutere con loro tra un bicchiere di vino e l’altro forse un pochino aiuterebbe”.
Giovanni

*****

Gran finale, almeno spero. Il techetechetè di agosto è un mio pezzo di satira molto recente (luglio 2022) e molto estivo. Si parla di Capalbio e di altre cose. Come dicono i telegiornali: bevete molto e vestitevi leggeri, mi raccomando.

“Capalbio non è più quella di una volta. Dopo la requisizione del litorale toscano per decreto governativo, le contesse con l’orto biodinamico e gli intellettuali che lo mangiano tutto sono costretti alla promiscuità obbligatoria con migliaia di famiglie tatuate, in regola con il tasso di obesità previsto dalla legge, inviate per la Grande Bonifica Popolare votata a larga maggioranza dal Parlamento. Laddove regnavano la desolazione, il silenzio e la lettura di libri Adelphi, finalmente fioriscono i barbecue, i concorsi di Miss Tette, i gavettoni, in uno sfrigolio di grasso di salsiccia che apre il cuore, con l’amato fracasso degli altoparlanti che introna i bagnanti e mette in fuga i cinghiali.

L’intercettazione – Molti intellettuali sono colti alla sprovvista dal precipitare degli eventi. Lo dimostra questa intercettazione, al vaglio degli inquirenti:
“Che devo fare, Fosco? Ti confesso che ho paura”.
“Niente panico. Devi solo mimetizzarti, cercare di non dare nell’occhio”.
“Vale a dire?”
“Ciabatte infradito, shorts, panza di fuori…”.
“Ma è il mio abbigliamento abituale! Da una vita! Io sono volgare da sempre, lo sono con convinzione, che devo fare di più?”
“Non illuderti, Gilberto, si vede benissimo che sei un giovane autore Einaudi”.
“E da che cosa?”
“Dalla faccia. Hai la tipica faccia da giovane autore Einaudi”.
“Ma non posso cambiare faccia a 62 anni!”
“Prova a rifilarti le sopracciglia. Fatti un piercing al naso. Comprati un dogo argentino. Inveisci contro un vucumprà. Twitta cazzate. Iscriviti a un poligono di tiro. E soprattutto non parlare, hai capito? Bocca chiusa sempre e ovunque, non sia mai che ti scappi una subordinata, o una figura retorica”.
“Va bene. Lo farò. Ma quando ci vediamo?”
“Mai più. Solo un pazzo avrebbe il coraggio di farsi vedere insieme a te. Sei fottuto, Gil”.
“E tu, Fosco? Che sarà di te?”
“Io mi sono già consegnato. Ti parlo da un campo di rieducazione a Igea Marina. Giochiamo a racchettoni sei ore al giorno. La sera balliamo il sierra-sierra al Bambabilù con digéi Charlie. Addio, Gil. È stato bello amarti, ma l’omosessualità, oggigiorno, è un lusso da non ostentare. E mi raccomando, nascondi l’argenteria”.
“Ma non ce l’ho! Non l’ho mai avuta! Il mio ultimo libro ha venduto cinquecento copie, quasi tutte comperate da mia madre! Sono povero!”
“Non contraddirli. Se ti fanno un’ispezione e non trovano l’argenteria, ti accusano di averla trafugata in Svizzera. Procurati una pepiera, un mestolo, un sottobicchiere, una cagata qualunque, così almeno ti sequestrano quella. Hai capito?”
“Capito. Addio Fosco. È stato bello amarti”.

Costa Smeralda – Il tradizionale vip-watching (burini poveri che osservano con ammirazione e invidia burini ricchi) ha risentito profondamente degli attuali rivolgimenti politici e sociali. Per la prima volta, dopo molte estati, i due fronti hanno fraternizzato, riconoscendosi uniti dalle stesse speranze, dalle stesse ambizioni e soprattutto dagli stessi gusti. Centinaia di bodyguard, fino a ieri impegnati a tenere separati i guardoni e i guardati, hanno deposto le armi e si sono uniti alla folla. A tutti i presenti è stata regalata una litografia dell’artista Bastian Parakulis: raffigura Flavio Briatore a cavallo mentre trafigge con una lancia un radical chic. Polemiche perché agli ultimi arrivati è stata offerta in dono una seconda tiratura dell’opera, ma con Maurizio Belpietro al posto di Briatore.

Rimini – La movida a Rimini è sempre uguale e sempre irresistibile, ma un emendamento dei cinquestelle ha imposto che tutti i partecipanti conservino lo scontrino. Un militante del meetup di Modena, trovato in possesso di quattordici scontrini di Gin tonic e undici di Cuba libre, è stato tratto in arresto dalla polizia per ubriachezza molesta ma elogiato sul blog di Grillo come esempio di trasparenza amministrativa. Tra i passatempi più in voga in spiaggia, il contorsionismo digitale, importato dalla California da digei Monax: si deve riuscire a postare su Instagram la foto delle proprie dita mentre twittano la frase “sto postando su Instagram le mie dita mentre twittano”. Solo qualche caso di crisi epilettica e tanto, tanto divertimento”.