Compagni di nuove strade
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Compagni di nuove strade
Michele Serra
Martedì 21 novembre 2023

Compagni di nuove strade

Giorgio Gaber, Dario Fo, Adriano Celentano, Antonio Albanese ed Enzo Jannacci durante una trasmissione Rai del 2001 (GIANCARLO COLOMBO/ANSA/PR)
Giorgio Gaber, Dario Fo, Adriano Celentano, Antonio Albanese ed Enzo Jannacci durante una trasmissione Rai del 2001 (GIANCARLO COLOMBO/ANSA/PR)

Gaber e Jannacci, che in vita furono amici fraterni e per lungo tempo compagni d’arte, sono riapparsi insieme sulle scene, quasi fianco a fianco, per una casualità comunque toccante. Sto parlando dei due docu-film Io, noi e Gaber di Riccardo Milani, e Enzo Jannacci – Vengo anch’io di Giorgio Verdelli, usciti quasi contemporaneamente. In uno dei due film, quello su Gaber, compaio anche io, in mezzo a una piccola foresta di capelli bianchi e di senescenza milanese che un poco mi ha reso felice (sono quasi tutti vecchi amici e compagni di avventure), un poco mi ha fatto pensare.
Per carità, non voglio tediarvi con gli anni che passano e le articolazioni che cigolano, è una tale ovvietà che possiamo tranquillamente ignorarla. I vecchi invecchiano, e amen. Cavoli loro. I pensieri che mi sono venuti in mente sono di un altro tipo. Provo a dirla così, brutalmente: quali sono i Gaber e gli Jannacci venuti dopo Gaber e Jannacci? Posto che nessuna generazione, di nessuna epoca, è autorizzata ad attardarsi nel solito, noiosissimo “era meglio prima, eravamo meglio noi”, ritornello talmente sentito che non si può più sentirlo, io avverto il bisogno (è proprio un bisogno, credetemi) di capire se e come è avvenuto il cambio della guardia, e nuovi punti di riferimento altrettanto importanti hanno preso il posto di quelli vecchi.

Chiedo ai miei lettori più giovani, in questo senso, un aiuto, un appiglio, una pista da seguire: ditemi, per piacere, chi sono i VOSTRI Gaber a Jannacci, ovvero su quali persone, opere o esperienze – esclusi i classici: dire Omero non vale, nemmeno dire Picasso, o Bob Dylan, o Edith Piaf – avete potuto contare fino a poter dire: lui, lei, quel film, quel libro, quell’artista, sono i miei punti di riferimento anche in termini generazionali. Li riconosco miei compagni di strada, mie guide, miei maestri, interpreti della stessa epoca nella quale io mi sono formato. Sono persone che mi hanno aiutato a capire. Artisti che mi hanno aiutato a sentire.

Enzo era del ’35, Giorgio del ’39. Sono cresciuti nella stessa precisa Milano del boom industriale e delle periferie tristi, delle case editrici ambiziose e dei teatri sprovincializzati che, dopo l’asfissia fascista, guardavano all’Europa, e tutto sembrava nuovo. E sono cresciuti nello stesso preciso, travolgente attimo in cui la televisione (una sola, uguale per tutti) unificava il Paese.
A quelli come loro dobbiamo concedere un vantaggio oggettivo: andare in onda, mezzo secolo fa, voleva dire che un popolo intero, la mattina dopo, sui tram, in treno, negli uffici, nelle fabbriche, ti aveva visto e sentito. Gaber sceglie il teatro dopo che aveva sbancato la televisione, Jannacci canta una canzone impensabile come El portava i scarp del tennis davanti a dieci (quindici? venti?) milioni di italiani, tutti insieme. Il mutamento strutturale della comunicazione rende difficile perfino immaginare quella condizione antica. Forse oggi un eventuale Nuovo Gaber o Nuovo Jannacci sarebbe impensabile a partire dalle condizioni di partenza: nella galassia sterminata delle reti, dei contatti, delle fonti, nello sbriciolamento dei palinsesti (che oggi sono tanti quanti noi siamo: milioni), nella moltiplicazione esponenziale dell’offerta e del consumo, chi e che cosa può ancora ambire a diventare Punto Fermo? A diventare Maestro?

Negli ultimi anni, nel nostro piccolo cortile italiano, mi vengono in mente solo un paio di eventuali “nomination” – Zerocalcare? Sorrentino? E una donna? Ma in letteratura neanche uno – ma il gioco dei nomi è troppo soggettivo, troppo cangiante, ognuno ha i suoi ed è liberissimo di non essere d’accordo con i nomi degli altri. E io, comunque, non ho più i parametri, ho perduto la chiave, per questo vi chiedo aiuto. Sono sicuro che la vita continua. Ma non so più come continua. Qualcuno sia così gentile da rassicurarmi. Mi dica: dopo di voi, e dopo il vostro transito, sono successe molte cose straordinarie, che voi boomers non avete più la capacità di cogliere e di interpretare. Siete troppo vecchi. Il Pantheon va aggiornato. Prendete nota, boomers, di quello che è successo di bello e di importante, nel mondo (mi accontenterei: in Italia) dopo di voi, dal punto di vista culturale e artistico. Giuro che prendo appunti. Mi rifiuto di invecchiare inchiodato alla mia esperienza e ai miei pregiudizi. Voglio, fortemente voglio, che qualcuno mi avverta che un rapper a me sconosciuto ha avuto la stessa micidiale potenza dei Scarp de tennis, o di Chiedo scusa se parlo di Maria.

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Potrebbe sembrare un corollario al precedente discorso, invece non lo è. Mi ritrovo sulla scrivania (un campo di battaglia) una specie di autobiografia di Gigliola Cinquetti. Si intitola A volte si sogna, è appena uscita per Rizzoli, la copertina è in bianco e nero proprio come i miei ricordi, molto remoti, di lei al Festival di Sanremo. Gigliola fu molto famosa nella seconda metà del secolo scorso. Vinse il Festival, appena sedicenne, cantando Non ho l’età, battendo Bobby Solo e Una lacrima sul viso. Era il ’64, ero poco più che un bambino, avevo dieci anni, ma ricordo ancora la delusione, sia pure nelle forme tifose, elementari, di un decenne: la tradizione, il perbenismo, la melodia strappacuore avevano avuto la meglio sui tempi nuovi e sul rock, sia pure nella confezione molto casareccia di Bobby Solo, che con Little Tony era il nostro Presley di cortile. Noi altri, preadolescenti dell’epoca, sentivamo di essere già rocker senza capire bene perché. Dunque, pollice verso per Gigliola, che piaceva tanto alle nostre mamme: “finalmente un faccino pulito in mezzo a tutti quei giovinastri che urlano”.

Anni dopo (non pochi), sul finire degli Ottanta, incontrai Gigliola a Montecchio nell’Emilia alla Festa di Tango, che era il giornale satirico di Sergio Staino (dalle cui costole poi nacque Cuore). Per me era come se avessi visto Teresa di Calcutta a un Gran Premio di Formula Uno: non riuscivo a capire il nesso. Ero sbalordito. Gigliola era molto amica di Sergio (dunque amica del mio capo di allora), non saprei dire dove diavolo si fossero conosciuti (al club Tenco?), non riuscivo a risistemare le mie coordinate di giudizio.
Sergio mi spiegò che Gigliola era una donna fuori ordinanza, molto intelligente e con una storia anticonformista tutta da raccontare. Aveva ragione lui, ma per me era la ragazzina veneta, timorata e sicuramente di chiesa, diventata famosa vent’anni prima esaltando il valore della verginità (“non ho l’età per amarti” esattamente quello voleva dire: tre anni dopo il messaggio opposto di Gaber in Non arrossire, “non indugiare, non si fa del male se puro è l’amor”).
Se vi racconto di quel piccolo dissidio con Sergio, è perché mi aiutò a capire quanto possa pesare il pre-giudizio, quanto sia faticoso uscirne. Crediamo di sapere cose che sappiamo solo vagamente, solo a metà, solo per istinto e non per conoscenza. La conoscenza è faticosa perché scompagina le idee. E certe volte le butta giù come birilli.

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Di Giulia Cecchettin e del suo boia, lo avrete notato, non sono riuscito a dirvi niente, non riesco a sentirmi abbastanza al riparo dalla retorica. Ho scritto con fatica questa Amaca del 19 novembre, spaventato dall’incapacità, non solo mia, di dire qualcosa di nuovo e di differente. Mi scuserete se non so aggiungere nulla, almeno per adesso. Se non che la questione grava, con ogni evidenza, soprattutto sui maschi, perché sono i maschi che uccidono e le femmine che muoiono. Le femmine hanno lungamente ragionato, nell’ultimo secolo, sul loro corpo, la loro storia sociale, il loro ruolo. Hanno scritto, letto, discusso, lottato, fondato collettivi e gruppi di lavoro. I maschi no, come se essere maschi fosse questione già risolta. Una condizione ben definita, scontata. Ho come l’impressione che i maschi, in questo senso, siano all’anno zero.

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Siamo alla rubrica “Zanzare mostruose”, questa settimana piuttosto pimpante. Sfiora il capolavoro questa locandina, di una imprecisata testata locale, fotografata a Malé da Riccardo Meneghini:

Un orso lancia una botte contro l’imprenditore Botteri.

A parte la suggestiva assonanza tra l’arma utilizzata e il suo bersaglio, lo straordinario fatto di cronaca sollecita almeno due riflessioni. La prima: dove andremo a finire se gli orsi del Trentino, già muniti di artigli e fauci, cominciano anche a lanciare botti? La seconda è di ordine politico: l’orso avrà identificato il noto imprenditore? Avrà dunque agito anche per ragioni di classe?

Edda segnala, da una vecchia schermata su Televideo (che oggi ci fa più o meno lo stesso effetto del telegrafo), questo titolo che a suo tempo le piacque molto:

Meno pane nel sale

Come nota la stessa Edda, fa il paio con il titolo della scorsa settimana “con il laghetto nel trattore”. Le parole che si scambiano di posto sono un incidente linguistico probabilmente noto. Urgerebbe la consulenza di Bartezzaghi.
Interessante anche questa locandina della Gazzetta di Reggio segnalata da Samuele:

Ha decapitato la Madonna. Dna tradisce il vandalo.

Rivela un’intenzione sostanzialmente garantista: decapitare la Madonna non è deicidio, può essere derubricato a semplice vandalismo. La stessa bonomia emiliana è espressa in questo titolo della Gazzetta di Parma, segnalato da Filippo e Anne:

Uccise i suoceri con l’ascia: “Non l’ho fatto per cattiveria”.

Infine, ammirevole per completezza, ecco un lunghissimo titolo del Giornale del Cilento, segnalato da Serena Boni:

Cilento, dorme e va via senza pagare, poi racconta storie ai sacerdoti e chiede soldi, attenti al truffatore.

È un caso in cui il titolo probabilmente coincide con l’articolo, e forse lo supera in completezza. E per questa settimana è tutto. Ciao!