Il Bob a ruota libera

bob_dylan_-_the_freewheelin_bob_dylanThe Freewheelin’ Bob Dylan (1963).

(L’album precedente: Live at the Gaslight 1962
Il successivo: Brandeis University 1963).

Nel 1963 Tom Wilson era un promettente produttore trentenne. Non aveva ancora avuto l’idea di fornire a The Sound of Silence un accompagnamento elettrico, il gesto che di fatto rimise assieme i misconosciuti Paul Simon e Art Garfunkel e li proiettò verso la fama mondiale; non aveva ancora scoperto Zappa, né prodotto i Velvet Underground. Ma aveva già lavorato coi giganti del free jazz, Sun Ra e Coltrane. Quando alla Columbia gli chiedono di aiutare un nuovo folksinger a completare il suo album, non sembra molto convinto: “pensavo che il folk fosse roba da scemi (dumb guys). Lui suonava come quegli scemi, ma quando quelle parole saltarono fuori, restai sbalordito”. Si tratta ovviamente del nostro Bob Dylan, che in quei mesi è già diventato uno degli artisti più cool in città. Anche se il suo primo disco ha venduto soltanto 5000 copie; anche se continua a suonare in seminterrati come il Gaslight (però Furio Colombo quando passa nota una fila di ragazzine che cerca di entrare). Anche se le nuove canzoni per ora è più facile leggerle che ascoltarle: gli spartiti di Blowin’ In The Wing Oxford Town escono su rivista prima ancora che le canzoni siano incise.

(Persino io ho vissuto qualche anno in cui non sapevo chi fosse Dylan, ma già conoscevo una canzone che faceva Risposta non c’è, o forse chi lo sa, la luna nel vento sarà. La cantavano gli scout più grandi con le chitarre, rintanati sul fondo delle corriere; leggevano testo e accordi su fotocopie di ciclostili che circolavano liberamente, senza più indicazioni di autori e coi titoli sbagliati. Che in fondo era quel tipo di fama a cui aspirava Dylan prima del ’63: spargere le sue note anonime nel mondo, come Woody Guthrie e tutti gli altri bardi più o meno sconosciuti di cui si sognava erede).

Il 1963 cambia tutto, o almeno in seguito ci siamo convinti di questo. In primavera escono due album che in teoria fanno tabula rasa dell’immaginario giovanile e della storia della musica: uno è proprio The Freewheelin’ Bob Dylan, il primo capolavoro di Dylan; l’altro è il 33giri di questo nuovo gruppo inglese, i Beatles. Anche loro all’apparenza non fanno nulla di nuovo e neanche di troppo intelligente. Anche i loro brani possono essere smontati pezzo per pezzo, e rivelare gli antecedenti, anche meno clamorosi: c’è ancora molto rock’n’roll (un genere che da qualche anno era passato di moda), qualche ballata, qualche incursione spericolata nel rhythm and blues… nulla di eccezionale. Anche loro un po’ scemi, un po’ poser, con un’agguerrita fanbase di ragazzine. Quello che fa la differenza, nota Bob (o almeno così racconta 40 anni dopo), è un imponderabile elemento di simpatia. Istintivamente, Lennon e McCartney azzeccano la tonalità della nuova generazione: pur muovendo da radici più complesse, più contorte, Dylan fa la stessa cosa. Più delle parole conta il personaggio che stai costruendo, o meglio: il personaggio che riesci a costruirti, con quelle parole.

Sono mesi intensi. Dylan è diventato maggiorenne (al tempo succedeva a 21 anni) il che ha fornito al suo nuovo manager una scusa per rinegoziare il contratto con la Columbia; è stato addirittura in Europa in una balorda tournée – un regista inglese dopo averlo visto e ascoltato aveva deciso di scritturarlo per un dramma televisivo alla BBC; lui per l’occasione aveva dimostrato quell’inettitudine alla recitazione che tante frustrazioni arrecherà a lui e ai suoi fan più affezionati. Ma insomma, in città i giornalisti cominciano a parlarne bene. Pete Seeger e Dave Van Ronk, l’aristocrazia folk, lo invitano sui palchi, ai festival, sul divano quando c’è bisogno. Il nuovo disco sta crescendo, non è che il ragazzo si trovi sempre a suo agio in sala di registrazione: diversi esperimenti andranno buttati via – però quel che resta sembra proprio roba buona. Più originale del solito. Quasi ogni pezzo ha una sua storia, un suo pedigree, un paio di ballate hanno progressioni armoniche che puoi far risalire al Settecento. Ma basta attraversare la strada, anzi, un corridoio alla Columbia, e c’è già chi la pensa in un modo completamente diverso: il folk? Roba da scemi.

Sono quelle percezioni che ad alcuni dylaniti sfuggono. Oggi dissezionare le radici è fin troppo facile. Woody Guthrie, il blues del Delta, il folklore inglese, sono a portata di clic. È facile rendersi conto che il cantautore ventenne era una spugna imbevuta di antichità europee e americane; le fonti dirette e indirette sono lì apposta per autorizzare qualsiasi deriva erudita: lo stesso Dylan ci tiene a farci sapere che in lui convergono il blues di Robert Johnson, il simbolismo di Rimbaud, l’espressionismo di Jenny dei Pirati. E allo stesso tempo, tutta questa roba è un po’ da scemi. Tutto il revival folk, questa sottocultura del Village che tiene in piedi qualche caffè, che se ti sbatti ti può far vendere qualche migliaio di dischi. Roba da studenti. Specchietti per le allodole. È un sospetto che sfiora lo stesso Bob, quando all’inizio del suo blues omonimo avverte: le canzoni folk di oggi le scrivono a Tin Pan Alley (il quartiere degli editori di musica commerciale).

È fin troppo facile oggi prendere The Freewheelin’ e smontarlo nei suoi fattori primi – per scoprire che su 13 pezzi Dylan è responsabile sì e no di un paio di melodie (c’è di nuovo un ragtime sparato a cento all’ora Honey, Just Allow Me One More Chance, e a ben vedere anche Don’t Think Twice è un ragtime), e che certe invenzioni (la progressione di Girl of the North Country) sono fortuite, magari causate dal fatto che non conosceva gli esatti accordi di Scarborough Fair, o magari l’aveva ascoltata una volta sola e se la ricordava in una scala diversa. È fin troppo facile perdersi nell’enciclopedia dei rimandi, ed è il modo migliore per non capire l’impatto del disco nel 1963. Persino Blowin’ in The Wind non era un’aria originale, ma nel ’63 chi poteva saperlo? Solo Pete Seeger ricordava di aver sentito il canto degli schiavi ribelli, No More Auction Block, da cui Dylan aveva preso la strofa. Quel che crea veramente la tabula rasa non è Dylan, ma l’ignoranza del pubblico a cui si rivolge. Questi ventenni suoi coetanei, o di poco più giovani, Guthrie non lo ascoltano e non lo ascolteranno mai. Di Robert Johnson deve ancora uscire un LP. Per loro The Freewheelin’ suona assolutamente nuovo e fresco. E Dylan non fa nessuno sforzo per suggerire il contrario: il folk, dice, ormai si fa a Tin Pan Alley. Forse ce l’ha col folk commerciale, quello che sta per riempirgli le tasche appena gli artisti più affermati di lui cominceranno a incidere le sue canzoni. Forse ce l’ha col suo pubblico di finti poveri e hipster (il termine esisteva già, anche se indicava più spesso i bohemién bianchi che ascoltavano il jazz). Forse non ce l’ha con nessuno: sta solo suggerendo di non essere preso sul serio.

Per fare un esempio: una prestigiosa rivista studentesca ha indetto un concorso: scrivete una canzone sui fatti di Oxford. A Oxford, Mississippi, il presidente Kennedy ha dovuto mandare la Guardia Nazionale per tenere aperta l’università – altrimenti i bravi cittadini del posto avrebbero sparato a James Meredith, primo studente universitario afroamericano. Dylan partecipa al concorso con questa canzoncina che sembra incaricarsi di deludere qualsiasi aspettativa: racconta di essere stato a Oxford (non è vero) e di avere incontrato la sua ragazza – e il figlio della sua ragazza – in mezzo ai fumogeni. Nel frattempo è morto qualcuno e bisognerebbe investigare. Fine.

È difficile capire come l’autore di bozzetti del genere possa essere stato identificato come portavoce politico di una generazione. È più facile capire perché le ragazze facessero la fila fuori dal locale e i registi gli proponessero già delle scritture; non importa quel che racconti, ma il tono in cui lo racconti. Quell’equilibrio tra noncuranza e sbruffoneria (“Non sapevamo neanche cos’eravamo venuti a fare”), la formula segreta della coolness nel ’63. Mentre abbozza la sua storiella, Dylan non aggiunge nulla all’importante tema dei diritti civili, ma ha già annusato che per molti ventenni la rivoluzione sarà una quinta ideale su cui mettere in scena le proprie avventure: l’amore al tempo dei fumogeni, le relazioni al tempo dei rifugi antiatomici. La rivoluzione, se avverrà, farà tutto da sola: il cantautore è solo un filo di paglia nel covone sbattuto dal vento, il meglio che può fare è descrivere quel che succede, magari riderci su. In fondo è la stessa intuizione di Hard Rain: il “blue-eyed sun”, il bambino dell’apocalisse, sa che la catastrofe non si combatte, la catastrofe è il luogo dove gli toccherà di abitare, è la canzone che gli toccherà raccontare e respirare e cantare. La storia più lunga del disco è un incubo ambientato durante la terza guerra mondiale: Dylan racconta a uno strizzacervelli di essersi sognato unico superstite a New York – e di essersi subito messo alla guida di una Cadillac. L’ultimo uomo sulla terra, con Vincent Price, uscirà l’anno successivo (invece Noi due soli con Walter Chiari è del ’52, ma è molto improbabile che Dylan lo abbia visto). L’apocalisse è la fantasia escapista più estrema. Dopo tre strofe lo psichiatra lo interrompe: anche io ho fatto questo sogno, ma tu non c’eri. Già, il problema è che non possiamo condividere i sogni

Se Dylan ha intuito un tema di fondo, qualcosa che separa radicalmente il ’63 anche solo dal ’62, forse è proprio un certo tipo di individualismo, di solitudine. L’ultimo pezzo del disco, una specie di blues improvvisato sui fatti del giorno, porta l’enigmatico titolo I Shall Be Free. Libero in che senso? Oggi il dylanita medio sa che la canzone prende in prestito la melodia e l’impostazione da un classico di uno dei maestri di Dylan, il leggendario Leadbelly, compagno di avventure di Woody Guthrie. La sua canzone si chiamava We Shall Be Free perché, al termine di ogni strofa, Leadbelly si ricordava ancora di ribadire l’antico ritornello dei piantatori di cotone: Saremo liberi, saremo liberi, [solo] quando Dio ci chiamerà a casa. Dylan taglia il ritornello, rinuncia a qualsiasi orizzonte di redenzione, e vira tutto al singolare: non c’è nessuno che canti con lui (del resto, vedremo, non è affatto facile cantare con lui). Si tratta anche di fare necessità virtù perché davvero, in questa fase Dylan fa proprio fatica a suonare con gli altri: di una serie abbastanza lunga di session con altri musicisti sopravvive un solo pezzo, Corrina Corrina (era riuscito anche a far uscire un singolo rockabilly di cui in seguito si vergognerà, ingiustamente). In tutti gli altri pezzi c’è solo lui, la sua chitarra (meno sicura qui che nel disco d’esordio), la sua armonica, le sue parole. E funziona.

Non era previsto che funzionasse così bene. È probabile che alla Columbia pensassero a lui soprattutto come un autore. Il suo nuovo manager, Grossman, appena gli sente suonare una hit potenziale la passa ai suoi artisti del momento, Peter Paul & Mary; i soldi che non aveva visto col primo disco, Dylan li fa in una settimana di permanenza in classifica della loro versione di Blowin’ in the Wind. E però sulla distanza chi si ricorda della cover di Peter Paul & Mary? È una versione impeccabile, gli arpeggi di chitarra scivolano che è un piacere, c’è una strofa solista e c’è quella armonizzata a due e a tre per venire incontro a tutti i gusti: ma sono tutti gusti irrimediabilmente anni Cinquanta. I Sessanta saranno qualcosa di diverso: per adesso consistono in un ragazzo solo davanti al microfono. Può fare più o meno quel che gli pare e fa cose anche molto diverse. La sovrapposizione di sessioni diverse, a distanza di mesi, accentua la sensazione che dentro di lui ci sia una moltitudine di voci che premono per uscire. Il Dylan visionario, che tanto peso avrà di qui a poco, a ben vedere è rappresentato solo da Hard Rain. Il Dylan politico poteva contare su una manciata di pezzi che all’ultimo momento, non si è mai chiarito il perché, furono tolti dalla scaletta: si salva dalla censura preventiva solo il brano più incazzato di tutti, Masters of War.

Anche questo deriva da una ballata inglese che Dylan suona nel modo più martellante possibile: la sua spennata, altrove così allergica al metronomo, si abbatte qui inesorabile come la lancetta di una bomba. Alla sbarra ci sono i trafficanti d’armi, e sui banchi della giuria non siede la società, né il Movimento, né una generazione: anche qui c’è Dylan e Dylan soltanto. “E spero che moriate, e che la morte venga presto. Seguirò la vostra bara in un pallido pomeriggio, guarderò mentre vi calano nella fossa; e resterò in piedi sulla vostra tomba finché non sarò sicuro che siate morti”. Oggi bisogna fare un po’ di sforzo per prenderlo sul serio, ma nel ’63 doveva suonare piuttosto estremo. E però già allora qualche dubbio all’ascoltatore poteva venire: questi momenti così seri sono intervallati da sketch improvvisati, battute estemporanee, e dalle lagne del Dylan più molesto, quello innamorato.

A distanza di anni lo sforzo più grande che The Freewheelin’ chiede all’ascoltatore è quello di prendere sul serio i suoi lamenti per Suze Rotolo, che è tornata a New York proprio mentre Bob la cercava a Roma, in tempo per farsi fotografare infreddolita assieme a lui sulla copertina. La sua sofferenza di innamorato lasciato solo per un semestre, Dylan cerca di oggettivarla in un blues primordiale; non c’è ancora nessun purista in giro che possa accusarlo di appropriazione culturale, ma quando “My baby took my heart from me” fornisce la rima a “Lord, she took it away to Italy, Italy“, è come se il gesso si spezzasse sulla lavagna. Sul serio stai facendo questo, Bob? Sul serio stai usando la musica del dolore e della schiavitù per lamentarti che la tua ragazza è in vacanza studio? Subito dopo aver condannato a morte i mercanti della guerra del mondo? E con la stessa voce con cui nel lato B dirai Ok, me ne vado io, mi hai solo fatto perdere tipo il mio tempo prezioso? E te lo permettono? Sì, te lo permettono, hai vent’anni e soprattutto non c’è nessuno là fuori che si renda conto di quel che stai facendo veramente.

Il brano più antipatico di tutti è Bob Dylan’s Dream. La melodia è quella di una struggente ballata ottocentesca ispirata alla tragica spedizione di sir John Franklin alla ricerca del passaggio a Nordovest. Dylan ci mette sopra il suo bel nome, ma non ha nessuna tragedia da raccontare. In mancanza di meglio decide di raccontare di certi suoi amici coi quali si riposava intorno a una vecchia stufa a legna, meditando progetti di gloria. “Non avevamo mai pensato che avremmo potuto invecchiare“. Vien da rompergli la chitarra in testa, Bob, insomma, hai vent’anni. A chi la racconti. Se davvero ti mancano i tuoi amici, chiamali, scrivi qualcosa. Macché. “Quanti anni se ne sono andati [boh, sul serio, quanti? Due? Tre?] Quante scommesse sono state vinte e perse, quante strade prese da migliori amici che non ho mai più visto“. Chissà se c’è una sola parola vera. Nel ’63, intendo. Perché in seguito sì, tutto quello che sta cantando si avvererà. Ora sta solo sognando, o tirando a indovinare.

(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 1962, 1963: The Freewheelin’ Bob Dylan, Brandeis University 1963, Live at Carnegie Hall 1963, 1964: The Times They Are A-Changin’, The Witmark Demos, Another Side of Bob Dylan, Concert at Philharmonic Hall, 1965: Bringing It All Back Home, No Direction Home, Highway 61 Revisited, 1966: The Cutting Edge…)

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.