I tuffatori di Zanzibar

In questi mesi estivi ho fatto qualche piccolo viaggio, sono stato in un paio di isole e su un isolotto, ho visitato qualche museo, ho fatto il bagno in un fiume, ho affittato uno scooter, ho scritto, non ho quasi mai smesso di lavorare, ho letto molti libri e, soprattutto, non ho mai smesso di scorrere con il dito la home di Instagram e in particolare di aprire una serie di video. Più li aprivo, più li guardavo e più Instagram me ne proponeva di nuovi. Erano video di persone che in ogni parte del mondo si tuffavano da una scogliera, da un ponte di cemento o da un albero altissimo precipitando in un fiume nel cuore di una foresta. Decine e decine di video di esseri umani che si tuffano, procurando al cervello un certo piacere e suscitando una specie di sete dello sguardo, dato dalla sensazione inebriante del volo, del vuoto, della sospensione, dall’immagine del corpo umano che rotola, cade e si avvita al rallentatore. E dato, infine, da quella sorta di tripudio finale e refrigerante, che consiste nella frantumazione dello specchio d’acqua al contatto con la massa fisica del tuffatore.

Dopo un paio di mesi, l’algoritmo mi ha portato a scoprire un episodio particolare nel panorama di questa gioiosa arte del tuffo. Siamo a Stone Town, la porzione più antica della città di Zanzibar, capitale dell’isola di Zanzibar. Leggo su internet che molte vecchie case di Stone Town hanno sulle porte bellissimi pomi di ottone, un dettaglio ereditato dall’architettura indiana. A Stone Town ci sono tracce di cultura indiana, europea, persiana e moresca. I video dei tuffatori sono girati nella zona dei giardini di Forodhani, lungo la passeggiata di fronte al mare, dove la sera aprono le bancarelle che vendono frutta, pesce alla griglia e pizza zanzibarina. Decine e decine di adulti, adolescenti e bambini si trovano in un punto preciso del lungomare, dove è possibile lanciarsi in acqua, prendendo la rincorsa e saltando dalla vecchia fortificazione in pietra.


Questa cultura del tuffo è documentata da decine di video caricati su Instagram e su YouTube. Si tratta di immagini stupefacenti, ipnotiche, di pura bellezza. Come se nella particolarissima torsione ed elasticità di quei corpi ci fosse un’indicazione sfuggente e indecifrabile, che allude a uno stato di pienezza e felicità. Se ne potrebbe scrivere per pagine. Da una parte il carattere teatrale della performance, dato che il tuffatore si esibisce, con più di un pizzico di vanità, tra due ali di folla (mi ha ricordato il rito della line dance nella trasmissione televisiva Soul Train e il modo in cui un tempo, in strada, nella vecchia cultura Hip Hop si creavano dei cerchi umani intorno alle acrobazie dei B-boys); dall’altra il tuffo, in questo specifico angolo di Forodhani, sembra essere un’arte così evoluta e stratificata da aver prodotto un’intera serie di stili, scuole, modi, approcci, e performance spesso barocche, goliardiche, folli, dando piena espressione a una vitalità corporea che sembra vivere di un’esuberanza eccezionale, come se da queste parti il corpo fosse uno strumento che va costantemente sperimentato, esplorato e strapazzato. Lo dimostra anche questo video, girato di notte, sempre da qualche parte a Zanzibar.


Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016) e L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019).