Due minuti in Piazzale Loreto

Un paio di giorni fa avevo un appuntamento in Piazzale Loreto. Era una bella giornata di sole e la temperatura era scesa di qualche grado. Sono arrivato con leggero anticipo e nell’attesa mi sono appoggiato a una balaustra a ridosso della strada.

Avevo i piedi allungati sul cordolo e tra la mia postazione momentanea e la carreggiata passava giusto mezzo metro. Le auto in curva rallentavano o acceleravano non troppo lontano dalle mie scarpe. Sentivo i pneumatici scricchiolare sull’asfalto. La prossimità alla strada e al flusso aggressivo delle auto non mi metteva nessuna inquietudine, anzi, ho avvertito una sensazione particolare, incoerente, simile al piacere che si prova quando in inverno camminiamo lungo la spiaggia e la risacca del mare ci arriva a lambire le suole. Il girotondo delle auto in Piazzale Loreto, la sfericità del luogo, l’affaccio dei grandi palazzi che lo circondano, le insegne e i pannelli pubblicitari che sormontano gli edifici, i vetri blu del Palazzo di Fuoco all’inizio di viale Monza, in quel momento si sono rivelati con una nettezza e uno splendore inediti. Mi sono specchiato nella giostra e nel moto di quella caotica porta girevole che segna l’ingresso e l’uscita da Milano. Davanti a me, però, non avevo un’immagine deprimente del samsara, semmai ho percepito che qualcosa di chiaro, potente e vivificante, per quanto breve e indefinibile, stava accadendo proprio in quei minuti di sole. Che cosa? Non saprei.

Ripensandoci, forse c’è un motivo se ho deciso con l’istinto di appoggiarmi alla balaustra e di prendermi un po’ di tempo per guardare lo spettacolo della rotatoria, come se fossi su una panchina sopra un promontorio.

La ragione è che un paio di mesi fa, durante Sprint, il Salone per l’editoria indipendente e il libro d’artista, ho sfogliato un piccolo volume di fotografie (meno di quaranta pagine) scattate proprio a Piazzale Loreto. Il libro sul momento mi aveva colpito moltissimo, mi era davvero piaciuto, poi me n’ero completamente dimenticato, ma probabilmente durante lo sfoglio aveva già cambiato per sempre il mio modo di vivere e vedere il piazzale. Si chiama Loreto. Un fascino discreto. L’autore, Francesco Villa, si è sistemato con una macchina fotografica al centro della rotatoria, dove si trova una grande isola verde e selvaggia (che probabilmente, insieme al resto del piazzale, si trasformerà in qualcos’altro a partire dal cantiere di riqualificazione annunciato per il 2023). Da quella posizione privilegiata ha cominciato a inquadrare i conducenti in attesa al semaforo. Ha provato a spezzare il continuum automobilistico in più istanti diversi, lì dove tutto, al contrario, appare sempre fluido e in movimento.

Nelle foto si vedono le facce di chi attende il verde per ripartire, il minuto per minuto delle particelle umane in transito. Sono le maschere straniate di chi è impegnato in una serie di azioni che hanno a che fare con la guida di una macchina. Forse è un tipo di faccia non dissimile da quella che abbiamo quando lavoriamo in solitudine di fronte allo schermo di un computer.

Per Piazzale Loreto sono passato tante volte. Forse cento, duecento volte da quando vivo a Milano, non ho tenuto il conto, però solo ora, grazie a un libro, ho visto la potenza di questo luogo, la sua essenza sfuggente e il volto degli automobilisti che l’attraversano ogni giorno.

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016) e L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019).