Una rissa per finta

Qualche giorno fa, intorno alle nove di sera, mi trovavo in un luogo all’aperto, a Milano. Si tratta di una spianata di cemento levigato bianco, dove ci si può sedere su qualche panchina o su un muretto. Bevo una birra. A breve distanza dal punto in cui sono seduto c’è un grande raggruppamento di ragazzini. Sono, mi pare, ragazzi di origine filippina. C’è anche qualche ragazza. A occhio sono una trentina.

Incontro spesso a Milano compagnie di ragazze e ragazzi filippini che si sistemano in qualche anfratto per provare e riprovare coreografie di ballo, magari di fronte al riflesso opaco di una vetrina. Osservo la comitiva di ragazzini. Alcuni sono seduti, altri in piedi. Interagiscono in modo tranquillo. Bevono bibite e si passano buste di patatine. Indossano tute, felpe e sneakers. Da una cassa bluetooth arriva un filo di musica.

All’interno del gruppo ci sono sottoinsiemi composti da quattro, cinque persone, dove ci si parla l’un l’altro e si fa comunella. Poi c’è chi deambula tra un sottoinsieme e l’altro, come se cercasse in un secondo sottoinsieme un’alternativa, una soddisfazione e una considerazione che non ha trovato nel primo sottoinsieme. C’è chi scherza e chi invece mostra un contegno più riservato e silenzioso. Ormai è notte. Lo spazio occupato nella spianata è minimo. I corpi sono vicini. È un gruppo dalle fila serrate. Mi chiedo come sia possibile una socialità gratificante in un gruppo di trenta, quaranta persone. Qual è il piacere? Qual è l’urgenza? Dove nasce il bisogno di essere in tanti? Mi sembra un fatto incomprensibile, ma poi ricordo che a sedici, diciassette anni, io stesso mi ritrovavo a passare i pomeriggi in una piazza o di fronte a una sala giochi, in mezzo a grandi assembramenti di coetanei. Poi, bastano uno o due anni e ci si specializza, in qualche modo, e così, mi sembra di ricordare, si diventa individui adulti e si comincia a scegliere, a capire con chi si preferisce avere un legame e passare del tempo e con chi invece non si vuole avere niente a che fare, perché ci si scontra e mancano interessi in comune.

Nel momento in cui sto per finire la birra, accade un fatto improvviso e sconcertante. Una rissa. Di punto in bianco, il quieto e ozioso gruppone di poco prima deflagra in una rissa. Tutti si menano con tutti: urla, calci, pugni, ginocchiate, in tre coalizzati contro uno, lembi di felpa agguantati per strattonare e tirare a terra, schiaffi, sgambetti, grovigli, inseguimenti, un ragazzo cade e finisce sdraiato, viene circondato e preso a calci (subito mi torna in mente l’episodio della morte di Willie, il ragazzo ucciso a Colleferro). La rissa va avanti per un po’ – più o meno di due, tre minuti? Non saprei – tant’è che decido di allontanarmi e dopo essermi spostato di qualche decina di metri, mi fermo a un’estremità della spianata. Da lì osservo l’evolversi della mischia, che è ancora nel suo vivo. Sono paralizzato dalla visione, indeciso se andarmene o restare.

La rissa prosegue convulsamente sotto la luce bianca di una fila di lampioni. Il tonfo dell’urto tra due corpi, le grida soffocate e come tagliate, gli insulti, il suono crudo dei pugni e delle manate che impattano sulla stoffa delle felpe e sull’imbottitura dei piumini, il fischio di un paio di sneakers che strisciano sulla pavimentazione, tutto rimbomba contro la buia facciata di vetro e cemento che costeggia la spianata. A causa della pandemia, la rissa si svolge in un vasto e miserabile silenzio, che è quello delle piazze e delle strade deserte. La città circonda la spianata come l’anello vuoto di uno stadio in una partita a porte chiuse. Il silenzio rafforza in me la sensazione di uno spettacolo triste e senza significato. Da lontano la scena mi appare mossa, sgranata, simile ai fotogrammi della recente rissa al Pincio o della recente rissa a Gallarate, filmate e poi caricate su Instagram e TikTok. A un certo punto gli uno contro uno e le singole colluttazioni si diradano, la rabbia si smorza e la rissa finisce.

Mi lascia sbalordito il fatto che il gruppo non si disperde, non si frantuma in direzioni diverse. Al contrario, le persone che hanno preso parte alla rissa, piano piano, chi prima chi dopo, tornano di nuovo verso gli altri, verso il gruppo, che così torna in uno stato di quiete e si raccoglie di nuovo nel punto in cui la rissa poco prima è esplosa. Nel giro di breve, gli stessi trenta ragazzini che hanno partecipato alla zuffa riprendono a comunicare e a scambiarsi qualche parola. Com’è possibile? Un amico non esclude che la rissa sia stata simulata, per essere filmata e poi caricata su internet. Una pseudo-rissa. Una rissa fake. Mi sembra un’ipotesi plausibile, l’unica che spieghi una dinamica altrimenti indecifrabile, anche se, mi viene da aggiungere, chi ha preso parte alla simulazione, poi è entrato nel ruolo, come accade in un laboratorio teatrale, e il calcio e il pugno sono diventati un po’ veri e nel gesto simulato è entrata un po’ di crudeltà. Così, magari, grazie all’interpretazione, ciascuno avrà avuto modo di capire se la violenza è qualcosa che lo repelle o che gli appartiene.

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016) e L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019).