La piazza che non c’era

Non ho visto la televisione ieri, però sono andato in piazza del Duomo a Milano per vedere i funerali di Berlusconi. Mi aspettavo di partecipare a un evento storico, come nel 1901 i funerali di Giuseppe Verdi o nel 2005 la veglia per papa Wojtyla in piazza San Pietro a Roma. E invece quello che ho visto in piazza – senza aver visto le dirette televisive, senza avere ascoltato i talk show, senza avere letto le 40 pagine dedicate da ogni quotidiano alla morte di Berlusconi e avendo evitato il più possibile i social – è stato un evento poco partecipato, poco emozionante ed emozionato, in definitiva molto triste: un finale minore per un’epoca intera e per una vita sgargiante e chiassosa che, comunque la si giudichi, ha avuto una sua grandiosità.

Anche nel momento di maggior partecipazione, piazza del Duomo è apparsa a chi c’era molto più vuota che per qualsiasi evento di qualsiasi radio privata, influencer, manifestazione o partita. Si poteva attraversare e ci si poteva passeggiare tranquillamente, girando intorno ai presenti e osservandoli. Con i giornalisti che ho incontrato abbiamo condiviso la sensazione di un evento meno partecipato delle attese, e però intanto ogni televisione, sito e giornale parlava di marea e gonfiava i numeri, per giustificare la pompa con cui stava dando la notizia. Mi è venuto in mente che dopo il matrimonio di Carlo e Diana, il 29 luglio 1981, Umberto Eco scrisse sulla “Bustina di Minerva”, la rubrica che teneva sull’Espresso, che la decisione di alimentare i cavalli del corteo nuziale in modo che producessero cacca color pastello intonata al colore del Mall di Londra e quindi meno visibile in mondovisione rappresentava la definitiva vittoria della tv sulla realtà. Aggiungo ora: cominciò a mostrare anche quella crescente scissione tra tv e realtà, che Internet in molti casi non fa che aggravare.

Gran parte del sistema dell’informazione italiano, di destra e di sinistra, di Berlusconi, pro Berlusconi o anti Berlusconi, ha raccontato che in piazza Duomo ci siano state 15mila persone. Se lo erano lo sono state solo di passaggio. La prefettura per ragioni di sicurezza aveva fissato la capienza massima a 10mila e la piazza normalmente, per manifestazioni e concerti, ne contiene agevolmente il doppio. Se la soglia dei 10mila fosse stata raggiunta sulle vie di accesso alla piazza ci sarebbero stati controlli perché non venisse superata, e invece non c’erano: si entrava e si usciva – e si passeggiava, appunto – come se il tetto massimo fosse ancora molto molto lontano, in una diffusa sensazione di vuoto. Sui lati, lungo tutta la piazza, non c’era quasi nessuno. Al centro la concentrazione era maggiore, ma la densità poca.

Per spiegarmi questa corsa collettiva e spontanea a gonfiare i numeri non trovo una ragione più plausibile dell’esigenza di ingigantire il nemico in modo da poter giustificare il proprio ruolo e il proprio racconto, a ulteriore dimostrazione del solco sempre più profondo tra informazione e spettacolo, tra informazione e verità, tra informazione e pubblicità. E mi sembra questo l’esito più paradossale e coerente del berlusconismo, la vittoria della sua visione pubblicitaria del mondo e dell’Italia, cioè della politica e della storia come messe in scena: il fatto che anche gli avversari di sempre abbiano deciso di raccontarne i funerali mettendoli in scena come un evento storico, per corrispondere alle proprie attese e ai propri palinsesti, evocando e inventando il fantasma di una folla che non c’è più da anni. Intorno al corpo di Berlusconi, cioè, è andata in scena un’ultima gara ad accaparrarsene un brandello per brillare, un’ultima volta, della sua capacità di tramutarsi in spettacolo.

Ma quel che è più triste, al di là dei numeri, è che passeggiando per piazza del Duomo, con l’emozione di uno che si aspetta di partecipare alla storia e che, comunque, saluta un uomo che ha scandito tutta la sua vita adulta, non ho avvertito nessuna particolare emozione. Non tanto mia, collettiva. Mi è parso che il sentimento dominante sia stato una stanca curiosità e la voglia di esserci, per farsi qualche selfie e vedere chi c’era. Ma i tifosi del Milan erano molti di più dei sostenitori di Forza Italia, a dimostrazione del nulla lasciato in politica e di quali invece siano le imprese che restano, quelle che continuano a essere percepite come grandi dal maggior numero di persone, quelle per cui molti pensano valga la pena di prendere un giorno di ferie, pur di esserci e ringraziare. A dimostrazione di quanto il calcio sia stato, per Berlusconi, strumento politico. Ma non c’era politica in piazza. O almeno io non l’ho avvertita. C’era la fine della politica. Di quella politica.

Ho visto un mucchio di persone originali, di quelle che si vestono in modo fantasioso, con doppiopetti esagerati, farfallini e cappelli, di quelle che si truccano troppo o si infervorano più della media. Ma ho visto anche tanta gente normale, invisibile. Molti erano anziani, ma non solo. Tantissimi mi sono sembrati poveri, sottoproletari si sarebbe detto una volta. Altri sembravano capitati lì per caso. Un ragazzo scalzo probabilmente del Nord Africa si era arrampicato su un lampione. Un altro magrissimo con tanti orecchini e cani al guinzaglio. Una donna piuttosto giovane piangeva con gli occhi fissi su uno degli schermi, non tanto maxi, su cui si poteva seguire la messa. Molti fumavano, più della media (per ironia il divieto di fumo voluto dal ministro Sirchia nel 2003 sarà ricordato come uno dei pochi provvedimenti davvero storici dei governi Berlusconi). Si respirava il senso di una storia finita molti anni fa che però, per inerzia e convenienza, ha continuato a essere raccontata fino all’ultima goccia dai media in modo trionfale e quasi eroico, come se fosse ancora in corso, come se avesse ancora il potere di determinare gli eventi, allontanandosi sempre di più dalla verità di un dispiacere più intimo e profondo. In piazza del Duomo ieri alcuni piangevano, ma privatamente non politicamente, perché le loro vite sono state scandite dalla storia di Berlusconi, e la sua morte le trascina con sé. Anche la morte degli altri è un fatto privato, ma è una verità invisibile al racconto dei media. A un certo punto una signora anziana ha indicato eccitata al marito lo schermo del telefono, come se avesse visto un parente. In mezzo alla folla dentro la chiesa all’improvviso era apparso il Gabibbo.

Era un fake. Ma che cosa non lo è stato in fondo?

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.