I Repubblicani contro Trump

È finito agosto, mancano 11 giorni al prossimo dibattito televisivo tra i candidati Repubblicani e si comincia a fare sul serio. Questa settimana è successa soprattutto una cosa importante: è cominciata davvero la guerra dei Repubblicani contro Donald Trump. Game on, dicono gli americani.

Di cosa parleremo:
– la guerra contro Trump
– cosa fa Trump nel frattempo?
– gli altri sgomitano in vista del 16 settembre
– un video da The West Wing, tornato attuale
– poi ci sono quegli altri due, come si chiamano…
– ah, ci sono novità su Biden?

La guerra contro Trump
Dopo settimane di battute antipatiche e rispostine acide, Jeb Bush ha deciso che se vuole vincere le primarie questo è il momento di far fuori The Donald. Quindi ha smesso di ignorare gli attacchi quotidiani di Trump nei suoi confronti – attacchi che mirano soprattutto a ridicolizzarlo – e ha alzato il livello dello scontro. Innanzitutto ha diffuso questo spot.

Boom. Grazie agli oltre 100 milioni di dollari che Bush ha raccolto con i comitati politici indipendenti (i Super PAC, ne abbiamo parlato), questo spot sarà trasmesso a nastro in tv nei primi stati in cui si vota, innanzitutto Iowa e New Hampshire.

Gli attacchi di Bush contro Trump sono proseguiti durante i comizi di questa settimana e andranno avanti ancora, sicuramente fino al dibattito del 16 settembre. I collaboratori e gli strateghi di Bush hanno spiegato la mossa ai media sostenendo che è ora di trattare Trump come un candidato al pari degli altri e non come un fenomeno mediatico. I giornali hanno fatto notare – giustamente – che questo innescherà una dialettica a due che potrebbe finire per fare di Bush l’unico vero candidato anti-Trump, risollevando i suoi numeri nei sondaggi. Cosa potrà mai andare storto? Un sacco di cose, naturalmente. I candidati che fin qui hanno preso di petto Trump – Graham, Perry, Paul – hanno ottenuto qualche giorno di copertura mediatica e poi sono stati sbriciolati. E lo “scontro tra personalità” non è esattamente il terreno migliore per Jeb Bush, che non è un candidato da battuta pronta e lotta nel fango.

Bush comunque avrà un certo sostegno, in questa sua missione. Proprio poche ore fa il New York Times ha raccontato che dirigenti, funzionari e finanziatori del Partito Repubblicano hanno cominciato a discutere di come fermare Donald Trump e impedire che faccia altri danni. I pezzi più grossi del partito contro il leader del partito nei sondaggi. Fate scorta di patatine.

Cosa fa Trump nel frattempo?
Tre cose. Prima e più importante: ha firmato un impegno solenne a non candidarsi come indipendente qualora non dovesse vincere le primarie dei Repubblicani. Questa notizia è un pezzo della guerra che il partito gli sta facendo, e sappiamo che due mesi fa Trump in tv rifiutò di prendere un simile impegno, ma è stata accolta secondo me con un certo ingiustificato clamore (“Trump ha ceduto!”, “Ha capitolato!”, etc). Trump ha firmato l’impegno perché se non l’avesse fatto non avrebbe potuto candidarsi alle primarie di alcuni stati, per via dei loro regolamenti. E l’impegno che ha firmato ha un valore politico e nessun altro. Così come ieri, anche oggi niente impedisce a Trump di candidarsi come indipendente in qualsiasi momento lo desideri. Trump continua a dire che non ha intenzione di farlo “finché il Partito Repubblicano lo tratterà bene”. Che è quello che sta per non succedere più.

Veniamo alle altre due cose più piccole. Ricordate che qualche tempo fa, parlando di quel brocco di Walker, dicevamo che nemmeno Trump dice su tutto la cosa più di destra possibile? Trump lo ha dimostrato di nuovo questa settimana, quando ha detto in tv che l’accordo sul nucleare iraniano non gli piace ma da presidente se lo terrebbe, e ha aggiunto che le leggi sui matrimoni gay vanno rispettate punto e basta. Non è che le interviste gli vadano tutte dritte, comunque: a un certo punto gli hanno fatto delle domande un po’ stronze di politica estera – chi è Nasrallah? chi è Al Baghdadi? – e non se l’è cavata benissimo.

Gli altri sgomitano in vista del 16 settembre
Chris Christie, ai minimi termini nei sondaggi, ha detto che avrà un approccio più aggressivo al dibattito televisivo del 16 settembre e ha usato l’espressione “go nuclear”, che è indicativo in generale dell’umore e della disperazione di molti degli altri candidati Repubblicani. È ragionevole aspettarsi un atteggiamento simile anche da Rand Paul, Scott Walker e Mike Huckabee, per esempio. La principale notizia riguardo il dibattito ha a che fare però con Carly Fiorina.

Brevissimo riassunto delle puntate precedenti: ex amministratrice delegata di HP, unica donna candidata alle primarie dei Repubblicani, fino a due mesi fa andava molto male nei sondaggi e per questo era stata esclusa dal confronto televisivo tra i 10 candidati più popolari. È andata però al dibattito dei candidati “minori” e ha sbancato, attirando le attenzioni dei media e risalendo parecchio nei sondaggi. Dato che i candidati Repubblicani rimangono tantissimi, anche al dibattito del 16 – che sarà organizzato da CNN – sarà applicato una sorta di filtro basato sulla media dei sondaggi per decidere chi partecipa e chi no. Il punto è che se si valutano i sondaggi precedenti al primo dibattito, Fiorina è fuori; se si valutano i sondaggi successivi, Fiorina è dentro. CNN all’inizio aveva stabilito dei criteri per cui Fiorina sarebbe rimasta fuori. Fiorina ha protestato rumorosamente e siccome a CNN non sono proprio scemissimi – un dibattito tv è un programma tv, ha la pubblicità, ne vengono misurati gli ascolti: tenere fuori Fiorina davvero non avrebbe avuto senso – qualche giorno fa hanno cambiato le regole permettendo a Fiorina di partecipare. Quindi ci sarà.

Del dibattito parleremo meglio nella prossima newsletter, comunque. Tra gli altri candidati da tenere d’occhio ci sono Ben Carson – il neurochirurgo nero, ne avevamo parlato qui – che sta crescendo molto nei sondaggi, e Ted Cruz che continua a fare il miglior amico di Donald Trump sperando di beneficiare della sua eventuale caduta.

Un video
Avete letto probabilmente la storia della funzionaria del Kentucky che si rifiuta di dare licenze matrimoniali alle coppie gay, nonostante glielo imponga la legge dello Stato per cui lavora, in nome del fatto che questa sarebbe la volontà di Dio e lei agisce sotto la sua autorità. Si chiama Kim Davis, ha rifiutato di dimettersi, ha impedito anche ai dipendenti suoi sottoposti di dare le licenze matrimoniali e quindi è stata arrestata su ordine di un giudice, che ha spiegato che un dipendente dello Stato non può decidere quali leggi applicare e quali no. Io penso che sarebbe stato opportuno e sufficiente licenziarla, ma comunque: questa storia ha fatto tornare attuale una delle scene più famose di The West Wing, col presidente Bartlet che fa il coatto con una fanatica religiosa.

Poi ci sono quegli altri due, come si chiamano…
Sì, certo, ci sono anche i Democratici. Il gran casino delle primarie dei Repubblicani attira la grandissima parte delle attenzioni della stampa e questo per il momento non è un grosso problema per Hillary Clinton, che sta passando un periodo un po’ faticoso per la storia delle email e ha le risorse economiche per far sì che la minor copertura mediatica non si trasformi in una minore organizzazione logistica in giro per gli Stati Uniti. La buona notizia per lei è che il Dipartimento di Stato ha diffuso un altro pacchetto di sue email lavorative e dentro non c’è niente di politicamente imbarazzante, solo cose buffe come lei che non riesce a mandare un fax o che chiede gli assistenti come diavolo si usa un iPad.Tanto che qualcuno comincia a dire: non è che questo scandalo delle email la renderà finalmente umana e simpatica?

Nel frattempo il suo principale sfidante, il senatore Bernie Sanders, continua a registrare ottimi numeri nei sondaggi su Iowa e New Hampshire e pessimi numeri nei sondaggi su Nevada e South Carolina. I sostenitori di Sanders continuano a essere molto poco rappresentativi dell’elettorato statunitense: uno studio del New York Times di questa settimana diceche sono rappresentativi al massimo degli elettori del Connecticut. Per ora il senatore del Vermont, che si definisce socialista, non è riuscito ad attrarre abbastanza elettori meridionali, non bianchi e moderati per diventare davvero minaccioso.

Bonus
Il quotidiano israeliano Haaretz si è messo alla ricerca del kibbutz dove Sanders dice di aver trascorso diversi mesi come volontario negli anni Sessanta. Sanders ripete spesso che per lui è stata un’esperienza molto formativa. I kibbutz – comunità egualitarie di lavoratori che condividono tutto – in Israele sono 256, hanno ricchi registri e archivi, non doveva essere una cosa complicata. Per il momento non lo hanno trovato.

Ah, ci sono novità su Joe Biden?
Nessuna novità concreta. Questo in generale non è un buon segno: Biden non ha cominciato a raccogliere fondi e non ha assunto nessuno perché lavori a tempo pieno alla campagna elettorale, nemmeno in via “esplorativa”. Siccome il tempo è poco, ogni giorno che passa senza che accada nulla la strada davanti a Biden diventa un po’ più in salita. Ma abbiamo detto più volte che la scelta di Biden potrebbe arrivare anche alla fine dell’anno (per assurdo anche dopo febbraio), quindi niente è ancora deciso.

Cose da leggere
The Joe Biden Delusion, di Frank Bruni sul New York Times
What It Will Take to Win in 2016, di William A. Galston sul Wall Street Journal
– Why Clinton remains inevitable — almost, di Charles Krauthammer sul Washington Post

 

Francesco Costa

Vicedirettore del Post, conduttore del podcast "Morning". Autore dal 2015 del progetto "Da Costa a Costa", una newsletter e un podcast sulla politica americana, ha pubblicato con Mondadori i libri "Questa è l’America" (2020), "Una storia americana" (2021) e "California" (2022).