Una cittadina alle porte di Kyiv

Bucha è una cittadina alle porte di Kyiv, nelle cui campagne Michail Bulgakov passava le estati con la sua famiglia. D’ora in poi verrà tristemente ricordata per gli efferati crimini perpetrati dai soldati russi che rubano, saccheggiano, violentano, assassinano i civili e poi usano i loro cellulari per telefonare a casa e vantarsi. Vediamo corpi nudi accatastati, civili giustiziati con le mani legate dietro la schiena, passanti uccisi a caso, bambini lasciati morire negli scantinati, cadaveri sotto i quali sono state poste mine per colpire chi avrebbe dato loro una sepoltura. Dinanzi a queste terribili immagini (e pensare che Carlo Freccero dice che la guerra in Ucraina è una fiction!) è imbarazzante la richiesta dell’Anpi di una commissione d’inchiesta dell’Onu “formata da rappresentanti di Paesi neutrali, per appurare cosa davvero è avvenuto, perché è avvenuto, chi sono i responsabili”. Come ha commentato giustamente Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma, “è ormai una consuetudine quella dell’Anpi di confondere aggressori e aggrediti” (“La Stampa”, 5/04/2022). Infatti il ministro degli esteri russo Lavrov (quello che affermava che non c’era una guerra) ha dichiarato che le immagini dei civili uccisi nella città ucraina di Bucha sono una “provocazione orchestrata da USA e NATO”.

Molti si spiegano i massacri dicendo che “questa è la guerra”. Il problema è che questa è una guerra di sterminio di un popolo, come era già avvenuto tra il 1931 e 1934 quando Stalin uccise, deportò, affamò milioni di ucraini.

Quanto accade oggi, la violenza contro la popolazione civile ucraina , è in parte la reazione rabbiosa di Putin, e dei suoi militari, che credevano che l’Ucraina non fosse un vero paese, e che il popolo ucraino un vero popolo. Ritenevano  che il governo ucraino fosse una preda facile. Putin ha creduto a quello che gli è stato detto o ha voluto credere al suo stesso apparato, che era stato predisposto non per un’invasione militare, ma per un colpo di stato lampo, per prendere Kyiv in pochi giorni e installare un governo fantoccio o costringere l’attuale governo e presidente a firmare qualche documento umiliante.

Il 21 febbraio Putin aveva dichiarato che questa era una guerra preventiva contro l’Occidente, che doveva ritirarsi, sparire dalla “sfera d’influenza” russa (che poi era quella dell’Unione Sovietica). L’invasione dell’Ucraina doveva essere la prima tappa del “ripristino dell’equilibrio del potere” tra grandi potenze. La reazione del popolo ucraino e dell’Occidente (definito in questi anni dalla propaganda russa: decadente, ormai marginale, addirittura moralmente pervertito!) è stata una sorpresa. Il coraggio del popolo ucraino e del suo presidente Zelensky hanno svegliato l’Occidente che fino ad oggi, per paura del ricatto atomico e amore del quieto vivere geopolitico, aveva assistito impotente alle stragi in Cecenia, all’invasione della Crimea, alle infiltrazioni nel Donbass, agli interventi contro la Georgia in Ossezia del Sud.

Oggi dobbiamo constatare che la terribile arma di Putin è purtroppo il terrore. La Russia aveva programmato stermini feroci in Ucraina già da tempo (come mostra un documento ufficiale del Ministero dell’Industria russo, datato 13 settembre 2021), con trattori che scavano buche e vi gettano cadaveri irrorandoli poi con una sostanza liquida. Se non si arriverà rapidamente a una soluzione diplomatica (sempre più difficile da immaginare e realizzare) il rischio non saranno improbabili armi nucleari tattiche, ma massacri sempre più frequenti fino all’eventualità dell’uso di armi chimiche. Proprio in Polonia, che teme molto questa eventualità ai suoi confini, il presidente americano Biden ha dichiarato che in quel caso la NATO interverrebbe direttamente in Ucraina. Biden ha chiesto un processo per crimini di guerra contro Putin: “Quello che sta accadendo a Bucha è un crimine di guerra e Putin è un criminale di guerra”.

C’è chi, davanti ai fatti di Bucha, ha evocato la Shoah. Lo aveva già fatto il presidente ucraino, l’ebreo russofono Zelensky, parlando alla Knesset e suscitando molte polemiche. Un paragone sbagliato è stato detto: la Russia sta commettendo crimini di guerra in Ucraina, non un genocidio. Ma è difficile rinfacciarlo al presidente di un Paese sotto assedio, che sta cercando con tutte le sue forze di ottenere il sostegno del mondo. Il presidente del Centro Wiesenthal Efraim Zuroff ha detto: “Le immagini di Bucha fanno star male, sono crimini di guerra, ma il paragone con la Shoah è fuori luogo. L’Ucraina non si avvicina a un Olocausto e le auguro che non ci si avvicini mai”.

Ma i genocidi si possono ripetere? Gli stermini di massa, durante un conflitto come quello oggi in Ucraina, possono configurarsi come il tentativo di cancellare un popolo e una cultura? È appena stato pubblicato, da Rizzoli, un libro molto importante su questa questione: Auschwitz non finisce mai. La memoria della Shoah e i nuovi genocidi. L’ha scritto Gabriele Nissim, fondatore e presidente di Gariwo-La foresta dei Giusti. Nissim si rifà agli scritti e all’impegno dell’ avvocato ebreo polacco Rafael Lemkin (1900-1959) che, dopo la guerra, fu l’artefice della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, che venne approvata nel 1948 alle Nazioni Unite. A Lemkin dobbiamo la stessa creazione della parola genocidio che non esisteva nel lessico politico: un ibrido tra la parola greca “genos” (stirpe, usata da Platone nella Settima lettera) e il termine latino “cidio” (uccidere). Lemkin voleva che la memoria della Shoah, che aveva annientato tutta la sua famiglia in Polonia, dovesse unire il mondo intero in un nuovo comandamento morale: non commetter più nessun genocidio. Secondo Nissim il discorso sull’unicità della Shoah, “espressione del male assoluto che ha colpito soltanto gli ebrei in tutta la storia dell’umanità”, rischia di alimentare una percezione sbagliata: una gerarchia dell’orrore che sembra sminuire o relativizzare le tragedie toccate a molti altri popoli nel corso della storia (“Non si tratta di uniformare le memorie, perché ogni popolo che ha subito un genocidio giustamente mette sul piatto la sua storia”). Quello che è avvenuto nella Shoah è stato il limite del male, ma, come ha sostenuto Primo Levi, si potrebbe ripetere in altre circostanze, perché nella natura umana c’è anche questo istinto sadico, sebbene non lo vogliamo vedere. Ciò che accomuna il genocidio degli ebrei, degli armeni, dei ruandesi è l’intenzionalità di annientare un gruppo usando ogni forma di violenza e brutalità per disumanizzare gli individui destinati allo sterminio. L’orrore nasce da una precisa volontà e da decisioni concrete che conducono gli uomini a sterminare altri esseri umani per interesse, pregiudizio razziale o religioso, o accanimento ideologico. L’esortazione di Nissim è di ascoltare la nostra coscienza e non far morire l’umano nell’uomo e cercare un terreno comune per combattere i genocidi, perché quelli del passato non si ripetano.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).