Con rispetto parlando per le vacche

Mercato delle vacche, calciomercato: non è chiaro se debbano offendersi le vacche o i calciatori, degradati a termini di comparazione dispregiativi per metaforizzare qualcosa che tutto sommato non ne ha bisogno, cioè il mercato della politica, anzi neanche, la politica e punto. Qui peraltro non ci sono gran mandriani o procuratori sportivi, ciascuno vende la vacca che è o si propone alla squadra che l’ingaggia meglio: in questo senso l’uscita di Gianfranco Fini («da adesso comincia il calciomercato») ricorda quegli interisti che accusavano Ibrahimovic di essere un mercenario perché era passato al Milan: come se l’Inter a suo tempo non l’avesse comprato da una Juventus peraltro caduta in disgrazia. Insomma, squadra vende e squadra compra, bella scoperta, è il mercato, i flussi, domanda e offerta, solite cose, non è che un politico passa ai finiani per ragioni ideali e poi ripassa a Berlusconi perché è una vacca, non è che pecunia olet a seconda dell’acquirente.

Detto questo, però, ha ragione Pierluigi Battista che sul Corriere di ieri ha detto che una roba così non si era mai vista – mai – e ha pure ragione Paolo Cirino Pomicino nel dire che nessun parlamentare della Prima Repubblica – mai – passò direttamente da un partito a un altro: al limite fondò un gruppo proprio, o passò al gruppo misto. Ora invece il mercato ferve, non c’è dubbio, ma sinceramente non colpisce che una forza politica tenti di fare compravendita di parlamentari, e offra ciò che reputi opportuno: colpisce che ci riesca, colpisce che in questo Parlamento ci sia tutta questa gente disposta a vendersi e che molti di coloro che pure non si vendono, in realtà, hanno valutato seriamente di farlo. Non è un’accusa qualunquista e generica: in questi anni e in questi mesi chiunque abbia frequentato certi palazzi e palazzetti ha saggiato le agitazioni, i sommovimenti, le tensioni, le chiacchiere del trolley-man della politica, non ultimi i pessimismi e le preoccupazioni di uomini e ministri anche vicini e Berlusconi ma troppo giovani – temono – per sopravvivergli. Nello sterile e labirintico annaspare della sinistra le cose non vanno molto meglio, e insomma è vero, che siano vacche o calciatori è comunque un mercato, e però col cavolo che i tradimenti non esistono: perché esistono e resistono anche i rapporti personali, la gratitudine, la parola data, la lealtà, queste sciocchezze, magari addirittura una vaga reminiscenza di idee – ideologie non più, va bene – che ti unisce più a qualcuno e ti separa da un altro.

Il punto è come si sia arrivati a questo troiaio. Le ragioni paiono essenzialmente due. La prima è legata al noto tasso di riciclati provenienti dalla Prima Repubblica: spesso erano le seconde o terze file di partiti che già una volta non hanno avuto problemi ad abbandonare, e ancor più spesso erano democristiani geneticamente votati alla politica come immediata ricerca e gestione del potere; e non stupisce, in tal senso, che i partiti modello porte-girevoli oggi sono comunque quelli d’ispirazione postdemocristiana (Udc, Udeur, Ppi) con la spregiudicata aggiunta dell’Italia dei Valori che a livello locale sovrabbonda di riciclati perlopiù centristi. Ma forse la seconda ragione è più interessante perché riporta al solito snodo: il sistema elettorale. È ormai stranoto che il mitico Porcellum non rapporta l’eletto direttamente a nessun elettore (oggi si dice «nominato», infatti) e siccome il criterio di compilazione delle liste è quello che è – dilettanti, amici degli amici, professionisti alieni alla politica, segretarie, amanti, parenti vari – non stupisce che la qualità morale sia quella che è. Gli obiettivi dei fautori del Porcellum erano due: mettere d’accordo il proporzionalismo dell’Udc e della Lega col maggioritarismo di Forza Italia e di Alleanza nazionale (coi meravigliosi risultati che abbiamo visto) ma soprattutto riempire il Parlamento di silenti spingitori di bottoni che votassero senza fare troppe storie. In qualche caso, dei sostanziali servi. Ma i servi sono accondiscendenti, non sono necessariamente fedeli. Ci mettono poco a servire due padroni.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera