La fama di Diego

Ora che il lutto è finito, come tutto svanisce in un giorno, e che Maradona è nell’empireo dei santi al fianco di Che Guevara, Jim Morrison e Albert Einstein, pronto a diventare anche lui un doodle di Google, vorrei scrivere un’ultima parola su quello che può fare la fama agli esseri umani e su quello che tutti noi facciamo quando ammiriamo o odiamo in massa qualcuno. Maradona l’ho incontrato in uno studio televisivo. Ho una foto e una maglietta del Napoli firmata da lui. Aveva 53 anni, quasi l’età che ho io ora. Mi è sembrato un uomo vivo, generoso e disperato. A un certo punto, nell’intervista, avrebbe detto: «Mi sento come se avessi ottantasei anni».

Il lutto è un rito che ormai si consuma sui social. In morte ognuno ricorda commenta, litiga, critica, ammira, posta le sue foto o i suoi ricordi insieme al morto, se ne ha, cercando di ricavarne luce. Parla di sé. E nel lutto continua la relazione dei molti all’uno che caratterizza la vita dei famosi: ognuno ne strappa via un pezzo. Ogni ricordo e, prima, ogni contatto e ogni selfie, oggi, consumano il corpo e l’identità della persona famosa, frantumandola in milioni di cellule che non si comporranno più in un insieme. È come quando nelle chiese ci si sorprende a osservare le zone brillanti sulle statue di bronzo e ci si rende conto che brillano perché sono state toccate da mille dita di fedeli, ma che quella luce è in realtà anche una diminuzione, una consunzione, una trasformazione subita e non agita.

La vita di Diego Armando Maradona è stata così. Ognuno di noi ne ha preso un pezzetto, lo ha detestato, amato, criticato, esaltato, compianto, rimpianto, guardato. Ognuno di noi si è impossessato di un gol o di una foto o di un aneddoto, di una frase, mentre a ogni contatto qualcosa del vero Maradona si consumava. La persona che ho intravisto dietro la fama mi era sembrata l’idea platonica del sud del mondo, triste e vivido come solo il sud può essere. Poteva essere chiunque, perché chiunque può sembrare triste e vivo: un carrozziere di Buenos Aires, un fruttivendolo di Napoli, un muratore del Guatemala. Ma mi accorgo in questo modo di consumare anch’io un ultimo pezzetto del santo, di aggiungere un fioretto in più ai milioni che già compongono il mito, sottraendo un’altra cellula alla persona vera.

Si racconta che i primi a farsi fotografare da Daguerre avessero il terrore di essere fissati dalle loro piccole facce impresse sulle lastre di rame e d’argento, piccole facce che un tempo gli erano appartenute, ma che temevano non gli appartenessero più, almeno non come prima. Si racconta che i nativi americani rifiutassero di farsi fotografare per paura di perdere l’anima. Il paradosso del successo e della fama è che li cerchiamo per essere riconosciuti per quello che siamo, e invece otteniamo il risultato contrario: la cessione dei diritti sulla nostra identità, che tutti potranno immaginare, sognare, interpretare, inventare, fotografare, raccontare, fino a che di quello che siamo – che eravamo – davvero, non rimarrà più nulla se non frammenti dispersi e non componibili in un intero, un ologramma collettivo che non appartiene più a nessuno, neppure a chi lo ha proiettato. Ed è questa solitudine che ho intuito nelle persone famose che ho incontrato: il dover portare in giro un’identità che appartiene a tutti, tranne che a sé.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.