I videogiochi avevano bisogno di “Death Stranding”

Un’industria culturale vive del sottile equilibrio tra la fabbrica e il laboratorio, tra la ripetizione di forme già collaudate che piacciono al pubblico e l’innovazione eccentrica dei creativi. In genere sono i piccoli indipendenti a portare idee nuove, mentre i grandi editori evitano di allontanarsi più di tanto dai sentieri battuti. Ma la vera meraviglia in tutti i campi è l’unione tra i due aspetti: quel prodotto che ha la compostezza e le spalle larghe del grande progetto, ma allo stesso tempo è irrequieto come l’opera di un artista che si muove in libertà. Cantando sotto la pioggia, Indiana Jones – I predatori dell’arca perduta o Matrix sono esempi cinematografici di questa alchimia. Ma in ogni campo si cerca questa sintesi, dove l’innovazione arriva al grande pubblico in forma matura e strutturata. Da qualche tempo il mondo dei videogiochi non riusciva a realizzare un prodotto di questo tipo, ma Death Stranding, che esce oggi per PS4, è esattamente così.

(il trailer di lancio svela fin troppe cose)

Hideo Kojima (Tokyo 1963) non è un autore qualunque. È l’unica figura di tutta l’industria videoludica che racchiude in sé la natura di rockstar bizzosa e di maestro venerato. Per qualche decennio il suo nome è stato legato alla saga Metal Gear: un universo di spionaggio e missioni sotto copertura che ha raggiunto livelli di complessità e visionarietà narrativa inaspettati. Poi i rapporti tra Kojima e il suo editore Konami si sono deteriorati, ed è intervenuta Sony a dare mezzi e carta bianca perché il suo studio Kojima Productions pensasse qualcosa di completamente nuovo. Nuovo non è esattamente la parola giusta per una persona che guarda diversi film al giorno e vive masticando cultura popolare da decenni. Kojima è una spugna che assorbe tutto quello che viene prodotto, e ci costruisce dei mondi nuovi ma riflettenti: fra le pieghe dell’originalità si intravede un caleidoscopio di influenze che riverbera in ogni direzione. E infatti Death Stranding è un gioco che ha assorbito, per esempio, tutta la fantascienza di questi ultimi anni, come Jeff Vandermeer, Ted Chiang (Arrival compreso) e Cixin Liu.

Sam, il protagonista di Death Stranding interpretato da Norman Reedus (The Walking Dead), si muove in un mondo che è stato devastato da un cataclisma. Non ci sono più animali salvo qualche farfalla, e il territorio americano somiglia all’Islanda. Non c’è nessuno in giro e le comunità sono isolate dentro bunker sotterranei di cui si vedono solo le eleganti architetture in cemento all’esterno. Una società che aveva delegato tutte le relazioni alla rete e all’incorporeità dei rapporti digitali, si ritrova dopo una catastrofe a dipendere dal lavoro concreto per eccellenza, quello che classicamente ha unito le comunità isolate attraverso i secoli: Sam fa il fattorino. A piedi, in moto, in furgone, Sam consegna i pacchi tra i punti di una mappa che ha perso coesione. Da est a ovest, come ai tempi dell’unificazione degli Stati Uniti d’America, il servizio postale cerca di mettere in relazione le persone che hanno disimparato a considerarsi una collettività.

Siamo noi, questa umanità isolata e incapace di stringersi la mano? Be’ sì, siamo certamente noi. Ma, come tutti gli artisti visionari, Kojima parla di noi mentre parla di altro, e di altro mentre parla di questo mondo. Death Stranding non è un gioco solo politico né soltanto fantastico: vive nel territorio multistrato delle grandi opere d’arte, dove una sola chiave di lettura è una banalizzazione sbrigativa. Raccontare troppo di questo gioco sarebbe un delitto, soprattutto il giorno dell’uscita. Torneremo a parlarne più approfonditamente quando non ci sarà più da rispettare la curiosità degli utenti.

Tra quello che si può dire c’è che piove tempo, letteralmente. Il mondo dei vivi e quello dei morti hanno perso quella separazione che dalla notte dei tempi avevano saputo mantenere. Nel cast ci sono Léa Seydoux, Guillermo del Toro, Mads Mikkelsen, Nicolas Winding Refn. (Far parte di un gioco di Kojima è come recitare in un film di culto: vale più di quello che sembra.)

Giocare a Death Stranding non prevede che si spari quasi mai. Quello che si fa più spesso è consegnare dei pacchi attraversando paesaggi gonfi di bellezza e pieni di pericoli. Nel corso dei giorni ci si adatta a questa nuova vita in cui l’unica cosa che conta è la consegna. Consegnare i pacchi nelle migliori condizioni possibili è l’obiettivo di alcuni simulatori spaziali o altri titoli gestionali. Al giocatore dopo un po’ Death Stranding infonde la stessa soddisfazione, che è poi quella rasserenante delle attività manuali. C’è la stessa sensazione di aver fatto qualcosa di compiuto, e cresce man mano un tangibile senso di responsabilità verso gli altri. Quando si arriva alle destinazioni più importanti negli snodi cruciali del gioco, sotto la pioggia o la neve, nel territorio selvaggio, maestoso e desolato che tocca attraversare, partono i brani dei Low Roar, questo piccolo progetto acustico che ricorda un po’ i Radiohead e di cui Kojima si è innamorato. A tratti si viene sopraffatti dalla bellezza e capita di ritrovarsi con gli occhi lucidi.

L’esperienza di gioco è solitaria ma non conosce solitudine, così come la vita del protagonista Sam. Anzi, nel corso del gioco sarà sempre più chiaro che le cose sono fatte per andare meglio, le connessioni vanno ricostituite, le persone riabbracciate, è possibile collaborare e riportare l’umanità dove sembra non ci sia più spazio per contenerla. Ci vuole tempo perché forse tutti noi, compresa l’industria videoludica e lo stesso Sam, ci siamo abituati all’idea che non ci sia una prospettiva diversa, che niente possa funzionare se non così come funziona oggi. E invece no: le nuvole sono gonfie di pioggia, il tempo passa, le cose e le persone possono, devono cambiare. Death Stranding racconta il trauma, il cambiamento, la cura e la rinascita, e lo fa sia dentro di sé che all’esterno. A chi ci si dedica regala un viaggio emotivamente nuovo, più sottile e più intenso del solito. Al mercato dimostra che una grande produzione videoludica può ribaltare le convenzioni e parlare con una lingua nuova, ma farlo con slancio, a testa alta, senza paura. Da parecchi anni non usciva un gioco così grandioso, diverso e stupefacente.

Matteo Bordone

Matteo Bordone è nato a Varese negli anni della crisi petrolifera. Vive a Milano con due gatti e molti ciclidi. Lavora da anni a Radio2 Rai e a volte in televisione. Scrive in alcuni posti, tra cui questo, di cultura popolare, tecnologia, videogiochi, musica e cinema.