“Smalltown Boy” e i ragazzi di provincia

«Il videoclip dei Bronski Beat (trio dichiaratamente omosessuale) metteva in scena un ragazzo normale, timido, dimesso, che doveva affrontare le sfide, talvolta tremende, della vita. Segnò un punto di svolta. Diceva che le cose stavano cambiando e che non era più così necessario nascondersi e, forse, neppure esibirsi. Era la prima clip ad affrontare l’argomento con tale chiarezza e l’impatto sulla comunità LGBT mondiale fu enorme»

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Un pomeriggio di inizio estate del 1984 ero in macchina con mio zio. All’epoca avevo diciotto anni e fra gli adulti che mi circondavano era l’unico con cui trovassi una certa connessione, perché entrambi amavamo la musica. Da giovane lui era anche stato dj in radio e discoteche locali e una volta mi aveva persino portato fino a Nizza per assistere a un concerto del suo gruppo rock preferito, i Genesis. Dovevo a lui anche il miglior regalo ricevuto al mio compleanno: un buono da cinquantamila lire da spendere a piacimento in un negozio di dischi. Mi aveva elettrizzato.
Nella sua macchina l’autoradio era perennemente accesa. Anche se le sue preferenze restavano legate ai grandi complessi degli anni Settanta, gli piaceva restare informato sui nuovi gruppi e sui successi musicali del momento.
Quel pomeriggio, mentre stavamo andando non so dove, per radio è passata Smalltown Boy dei Bronski Beat. A quel punto lui si è voltato verso di me e mi ha detto: «Ma lo sai che a questo che canta piacciono gli uomini?». Mi aveva colpito il tono con cui si era espresso: non era di disprezzo, piuttosto di sorpresa. Quasi come se non se ne capacitasse, ma allo stesso tempo ne ammirasse il coraggio.
Quello stesso coraggio che ancora mancava a me per fare coming out e che avrei impiegato ancora qualche tempo per trovare.
Però la sua osservazione, la sua meraviglia, erano un segnale. Quella canzone aveva colpito nel segno. O forse non era solo merito della canzone.

L’arrivo nella grande città. Dal videoclip di Smalltown Boy

Oggi ricorre il quarantesimo anniversario dell’uscita di Smalltown Boy (pubblicato il 25 maggio del 1984), ma per parlare del suo impatto sul costume dell’epoca è davvero imprescindibile riferirsi anche al videoclip omonimo.
Per chi come me è stato adolescente negli anni Ottanta l’esplosione del fenomeno dei videoclip ha mutato radicalmente, e in brevissimo tempo, il rapporto con la musica. Se prima si attendeva con trepidazione l’uscita del nuovo disco del cantante preferito, ora si attendeva con altrettanta, se non maggiore, curiosità l’uscita del filmato che lo accompagnava.
Fra noi ragazzi ci si entusiasmava molto di più per i video che per le canzoni che rappresentavano. In assenza di un canale che li trasmettesse tutto il giorno (MTV negli USA aveva aperto i battenti nel 1981, da noi Videomusic, la prima rete italiana dedicata alle clip, sarebbe arrivata solo tre anni più tardi) si stava svegli fino a tardi in attesa di Mister Fantasy su Rai 1 o si correva a casa da scuola in tempo per vedere DeeJay TV su Italia 1. E il giorno dopo, in classe, non si parlava d’altro.

La canzone dei Bronski Beat rappresentava una sorta di anomalia musicale, in quanto si tratta di un brano di grande successo in discoteca, ma dal tono estremamente malinconico, soprattutto se paragonato alle altre hit dance, di allora come di oggi. Su una base di sincopato synth-pop, il frontman Jimmy Somerville cantava in un acuto falsetto di un ragazzo di provincia, triste e bullizzato, che non avrebbe mai trovato a casa l’amore di cui aveva davvero bisogno e che per incontrare la felicità avrebbe dovuto voltare le spalle a tutto questo e fuggire via. Non esattamente il contenuto di una hit ballabile, che in genere era sul tenore di Oh, I wanna dance with somebody o simili.
Le parole di Smalltown Boy raccontavano la condizione di un giovane gay, ma se i riferimenti nel testo erano interpretabili è attraverso il video che diventavano assolutamente espliciti.

Si può dire che più che un semplice filmato promozionale fosse un vero e proprio cortometraggio in grado di raccontare le difficoltà di un giovane omosessuale di provincia, incompreso dai suoi stessi genitori, bullizzato e picchiato dai suoi coetanei e costretto a scappare verso una grande città per trovare degli amici e cercare la felicità che merita. Un’intera parabola di omofobia e rinascita nel giro di pochi minuti.
Era la prima clip ad affrontare l’argomento con tale chiarezza e l’impatto sulla comunità LGBT mondiale fu enorme.

Qui serve probabilmente un po’ di contesto storico: all’epoca gli artisti dichiaratamente gay erano rarissimi. Giusto per capire, superstar globali come Elton John e Freddie Mercury negavano le voci sulla propria sessualità (Elton John si era persino sposato con la sua segretaria in un maldestro matrimonio di facciata e Freddie Mercury avrebbe ammesso di essere gay letteralmente sul letto di morte, un giorno prima di spirare); futuri paladini come Neil Tennant dei Pet Shop Boys avrebbero fatto coming out negli anni ’90 e persino un coloratissimo Boy George, che si presentava sulle scene con abiti al limite del travestitismo, dichiarava timidamente di essere bisessuale. Il livello di ipocrisia (spesso imposto dalle case discografiche stesse e accettato controvoglia dai musicisti) era comunque altissimo.

C’erano delle eccezioni, come i Frankie Goes to Hollywood che solo qualche mese prima avevano lanciato Relax, con l’omonimo video che rappresentava una stilizzata orgia gay, ma il loro era un evidente tentativo di mirare alla provocazione e allo scandalo.

Smalltown Boy metteva in scena un ragazzo normale, timido, dimesso, che doveva affrontare le sfide, talvolta tremende, della vita. I Bronski Beat (trio dichiaratamente omosessuale) segnavano dunque un punto di svolta. Indicavano che le cose stavano cambiando e che non era più così necessario nascondersi. E neppure, forse, esibirsi. E soprattutto da un punto di vista discografico segnavano una rivoluzione: la prova che si potevano vendere milioni di dischi anche affrontando seriamente la questione omosessuale nei contenuti.

Il successo commerciale comportò la rottura di barriere proprio perché entrò nel linguaggio popolare. In un modo o nell’altro, quella canzone, accompagnata dall’inequivocabile video, induceva a parlarne fra amici, fra compagni di scuola. Permetteva di affrontarne il tema in termini di rispetto, consapevolezza, accettazione, in un momento nel quale gli unici discorsi sul tema nei media erano ancora di colpevolizzazione e condanna (eravamo in piena emergenza AIDS, anche questo contribuiva a relegare la questione gay in ambiti di peccati e castighi). Permetteva a me e mio zio di parlarne in un pomeriggio qualsiasi girando in macchina.

Come il ragazzo del video anche io, nel mio piccolo, avevo subito insulti e discriminazioni, e mentre i miei coetanei cominciavano a fidanzarsi con le compagne di corso e a parlare di lontani (ma inesorabili) progetti di matrimonio, io ero ben consapevole che per la mia realizzazione e la mia felicità avrei dovuto andare altrove, perché in una smalltown come la Pavia dove andavo al liceo non ci sarebbe stato spazio per me e per i miei desideri.

Sarei poi approdato nella metropoli di Milano e per una curiosa girandola di destini professionali sarei anche finito a lavorare per MTV, quello stesso canale dove avevo trascorso pomeriggi e serate intere a guardare videoclip di idoli musicali che mi apparivano irraggiungibili e con cui anni dopo avrei chiacchierato in camerino o bevuto drink nei locali dopo le registrazioni (le inattese rivoluzioni della vita).

Riconosco che nella mia formazione, culturale e sentimentale, i Bronski Beat non hanno avuto uno spazio rilevante. Mi sono poi formato sui libri di Pier Vittorio Tondelli e sui testi degli Smiths, che cominciavano negli stessi anni, ho avuto altri maestri. Ciò non toglie che per me, come per tutta la mia generazione, il video di Smalltown Boy resta indimenticabile, impresso a fuoco nella memoria, mia e collettiva.

Del resto tutti noi, adolescenti gay di provincia, ci siamo sentiti un po’ Jimmy Somerville guardando per la prima volta quel filmato, che metteva in scena tanto le nostre paure quanto le nostre speranze.

E quando in discoteca sentivamo centinaia di persone cantare in coro il ritornello della canzone, quell’implorazione reiterata «Crying to your soul, Crying to your soul» (piangi per la tua anima), che anche i ballerini in pista ripetevano senza un briciolo di ironia o scherno, abbiamo cominciato a pensare che sì, forse anche per noi e per la nostra felicità, c’era un futuro.

Matteo B. Bianchi
Matteo B. Bianchi

Ha pubblicato diversi romanzi, fra i quali Maria accanto e Generations of love - Extensions (Fandango). È stato autore di diversi programmi radio e tv. Dirige la rivista indipendente di narrativa, ‘tina e per Storie Libere realizza Copertina, podcast letterario giunto oggi alla sua dodicesima stagione. Nel 2021 ha fondato insieme ad Alessandro Cattelan la casa editrice Accento, di cui è attualmente direttore. Il suo ultimo romanzo, La vita di chi resta (Mondadori, 2023), è in corso di traduzione in dieci paesi.

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