Il racconto dei disturbi alimentari di Federica Pellegrini

Di cui ha sofferto a diciassette anni e di cui parla nella sua autobiografia

Federica Pellegrini a Venezia, 4 settembre 2022 (Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)
Federica Pellegrini a Venezia, 4 settembre 2022 (Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

Repubblica ha anticipato una parte dell’autobiografia di Federica Pellegrini, campionessa di nuoto che si è ritirata nel 2021. Il libro si intitola Oro, è pubblicato da La nave di Teseo e uscirà domani, martedì 16 maggio. Tra le altre cose, Pellegrini racconta di un momento particolarmente doloroso della sua vita, quando a 17 anni, nel 2005, cominciò a soffrire di bulimia e di quella che lei stessa definisce “dismorfia”, facendo riferimento, ma non è chiaro, a quei disturbi che correttamente si chiamano dismorfismo corporeo o disturbo dell’immagine corporea:

«La sera, dopo aver mangiato tutto quello che potevo durante il giorno, vomitavo. Lo facevo sistematicamente, ogni sera prima di andare a dormire, quando il ricordo di tutto il cibo ingurgitato aumentava il senso di colpa. Vomitare era un po’ come ripulirsi la coscienza e anche la mia maniera di metabolizzare il dolore. Si chiama bulimia ma io non lo sapevo. La bulimia per me non era il problema, era la soluzione. Il mio modo di dimagrire senza sacrifici mangiando tutto quello che volevo. Certo, una parte di me intuiva che era un segnale, che stavo cercando di toccare il fondo perché mi fosse evidente che avevo preso una direzione sbagliata. Ma più mi vedevo grassa e più mangiavo».

Pellegrini racconta poi che in quello stesso periodo venne chiamata per un servizio fotografico su Sportweek dedicato ad atleti e atlete famose che dovevano rappresentare animali, maschere o vari personaggi. Per lei il fotografo aveva immaginato una maschera veneziana, che prevedeva il viso truccato di bianco, una bocca a cuore, una parrucca bionda, tacchi e gioielli. Pellegrini, che in quel momento aveva difficoltà con il proprio corpo e la propria immagine, spiega il disagio provato alla seduta fotografica e poi alla presentazione delle foto: un disagio, dice, che al di là della percezione fisica di sé che sentiva in quel momento, aveva anche a che fare con l’esposizione e la sessualizzazione del suo corpo:

«Il giorno della presentazione ho il panico. So già che non mi piacerà. Per passare inosservata non mi trucco, mi metto una camicia e un paio di jeans sformati, mi lego i capelli con l’elastico per mortificarmi. Entro nella sala ed è peggio di quanto avessi immaginato. Appese alle pareti ci sono le foto. Enormi. Gigantografie. Un incubo. Rimango pietrificata, vorrei coprirle in qualche modo, soprattutto quelle con il bikini in cui non vedo altro che i rotoli di grasso sulla pancia. Le pose languide, la seduzione, vorrei solo sprofondare, sparire, morire. E invece tutti mi guardano, è pieno di gente che vede quella che a me sembra una povera ragazzina grassa e brufolosa, truccata come una puttana, mezza nuda. Io sono un’atleta, perché mi hanno trasformato in una femme fatale? Ho solo diciassette anni, sono minorenne: a prescindere dalla mia condizione fisica, quella sessualizzazione del mio corpo è una violenza, mi umilia ed è assolutamente fuori luogo».