(Austin Distel / Unsplash)

Che vita fanno i “nomadi digitali”

Milioni di persone nel mondo lavorano da remoto spostandosi di tanto in tanto, ma quasi mai da una spiaggia, e portando con sé alcuni problemi

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Da alcuni anni su Instagram può capitare di imbattersi in foto che ritraggono persone che lavorano tranquillamente a bordo piscina o in spiaggia, con il MacBook sulle cosce, magari con un cocktail a vista e le gambe abbronzate sullo sfondo. È questa l’immagine che spesso viene in mente quando si sente parlare di “nomadi digitali”, ovvero di quelle persone che lavorano al computer completamente da remoto, spesso approfittando della flessibilità data dall’assenza di un ufficio fisso per vivere per vari mesi all’anno in posti diversi del mondo, preferibilmente vacanzieri.

Durante i lockdown dovuti alla pandemia, moltissime persone hanno fatto le proprie prime esperienze con il lavoro da remoto, rendendosi talvolta conto che non era necessario andare quotidianamente in un posto per svolgere i propri compiti lavorativi. Se molti hanno sentito la mancanza dell’ufficio e vi sono tornati appena possibile, l’esperienza ha però lasciato a molti altri la voglia di continuare a lavorare da casa, magari con orari più flessibili, e in certi casi con la possibilità di cambiare periodicamente città.

Secondo i dati di MBO Partners, una società statunitense che aiuta i lavoratori in proprio con la stipula dei contratti, nel 2019 erano 7,3 milioni le persone nel mondo che conducevano una vita da nomadi digitali. Un numero che, secondo i loro calcoli, è raddoppiato nell’arco di tre anni: nel 2022 sarebbero 16,9 milioni le persone che lavorano da remoto viaggiando per lunghi periodi di tempo. Non si tratta di un fenomeno di massa, quindi, ma sicuramente di uno stile di vita che un numero crescente di persone sta provando. Con alcune grandi soddisfazioni, ma anche con conseguenze individuali e sociali sottovalutate.

Veronica Duriavig ha 32 anni ed è cresciuta nelle valli del Natisone, tra le montagne della provincia di Udine, ma dal settembre del 2019 vive qui e lì. Di questi tempi lavora dalla Costa Rica, dove conta di rimanere almeno qualche settimana, ma negli scorsi mesi è stata in Islanda, alle Baleari e alle Canarie, facendo tappa nel Friuli di quando in quando. Di lavoro si occupa di grafica per diverse aziende grandi e piccole: prima di mettersi in proprio, aprendo la partita IVA, aveva lavorato per nove anni in varie agenzie nella zona di Udine, accumulando una crescente frustrazione.

«Soffrivo moltissimo a stare in ufficio tra le dieci e le dodici ore al giorno. Sentivo che c’era qualcosa che non andava in quello stile di vita, mi sentivo stretta, per quanto il lavoro in sé mi piacesse moltissimo», racconta. «Ma mi sembrava l’unica opzione possibile: i miei avevano lavorato per trent’anni in fabbrica, sempre nello stesso posto, e non avevo mai sentito parlare di altre tipologie di lavoro. Quando me ne lamentavo con gli amici mi veniva detto che non c’era alternativa, che era semplicemente ciò che facevano tutti».

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Dopo molte riflessioni, Duriavig ha deciso di mettersi in proprio dopo aver individuato i primi clienti, e ha cominciato a viaggiare. «All’inizio stavo via una settimana, poi ho cominciato ad allungare sempre più i periodi in cui stavo via e ho notato che, con un po’ di organizzazione, era estremamente fattibile», spiega. «Di questi tempi, quando qualcuno mi chiede dov’è il mio ufficio rispondo: ovunque».

Seguendo principalmente i consigli di altri nomadi digitali, che si riuniscono in comunità su Facebook, Reddit e WhatsApp e si conoscono tra loro su Instagram, durante i propri viaggi e in occasione di eventi dedicati al nomadismo digitale, Duriavig dice di aver imparato a riconoscere i posti dove è facile sentirsi a casa, conoscere altre persone che fanno la stessa vita, spendere poco e avere un’esperienza che non somigli a una vacanza.

Spesso i nomadi digitali trovano alloggio nei cosiddetti coliving – ovvero degli edifici organizzati in modo che ognuno abbia un proprio appartamento, ma con alcuni spazi, come il soggiorno o la cucina, condivisi – che vengono aperti principalmente in posti poco frequentati dal turismo di massa. La cosa fondamentale è che la connessione Internet sia potente e stabile e che ci siano abbastanza prese per collegare i computer di tutti.

Duriavig si organizza normalmente il lavoro in modo da stare al computer per mezza giornata ed esplorare il luogo dove sta per il tempo rimanente. A volte, quando i progetti si accavallano, finisce per lavorare giornate intere, «ma se sei dove vuoi essere, la cosa non ti pesa», dice. «Quello che amo è la totale libertà di scelta: ogni giorno ti svegli e decidi cosa vuoi, segui la tua pancia, incontri persone diverse, scopri cose diverse da quelle che conosci, mangi nuovi cibi: sono cose che se fossi rimasta a Udine non avrei mai conosciuto. È un privilegio pazzesco».

Che poter fare il nomade digitale sia un privilegio è indubbio: in primo luogo, è uno stile di vita accessibile soltanto a chi ha un lavoro che si presta ad essere svolto totalmente da remoto, come programmatori, social media manager e strategist, designer, scrittori, blogger, fotografi e altre figure che hanno solitamente ruoli più o meno “creativi”, o quanto meno legati strettamente al digitale. Alcuni hanno contratti part-time o full-time per una o più aziende, ma moltissimi lavorano in proprio, con tutta la precarietà e la fatica che ciò comporta.

C’è poi il fatto che viaggiare costa – anche quando si decide di farlo in un paese dove il costo della vita è molto più basso che nello stato d’origine – e che fuori dai paesi occidentali sono in pochi ad avere un passaporto che consenta loro di vivere da qualche parte per diverse settimane senza bisogno di visti particolari.

E poi, semplicemente, ci sono attitudini e propensioni diverse. Federica Miceli, social media strategist e influencer siciliana che conduce una vita da nomade digitale dal 2015, dice di sapere bene che ci sono tantissime persone che soffrirebbero molto la vita che fa lei. «Non è per tutti. C’è chi vuole la sicurezza di vivere e lavorare sempre nello stesso posto, di avere una certa stabilità. È legittimo». Negli ultimi anni sono emerse diverse testimonianze di persone che hanno provato la vita da nomadi digitali e hanno sofferto molto la solitudine e l’instabilità di essere sempre in movimento e non riuscire a intessere legami affettivi duraturi.

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Ciononostante, alcuni profili social e blog molto in vista, che si trovano molto velocemente quando si comincia a fare una ricerca sul nomadismo digitale, contribuiscono a diffondere l’idea che questo stile di vita sia accessibile a tutti e relativamente semplice da mantenere. Alcuni vendono addirittura libri e corsi digitali a pagamento che promettono di insegnare tutto il necessario per lanciare la propria carriera completamente da remoto, in cui raramente viene menzionata l’importanza di avere già un lavoro avviato che ti permetta di viaggiare con una certa rete di sicurezza.

Nicholas Barang, un blogger che da oltre un decennio fa il nomade digitale soprattutto nel Sudest asiatico, ha pubblicato vari articoli che spiegano nel dettaglio come capire di quali di questi personaggi ci si può fidare, sottolineando che moltissime persone mentono sul proprio effettivo stile di vita online per ottenere visibilità e vendere alle persone un sogno che non corrisponde alla realtà dei fatti.

«Faccio parte di un gruppo dedicato ai nomadi digitali che si guadagnano da vivere facendo i blogger. Di recente, l’amministratore ha condotto un sondaggio chiedendo se qualcuno avesse mai lavorato da una spiaggia. Di diverse centinaia di risposte, solo una piccola manciata di persone lo aveva mai fatto e nessuno lo stava effettivamente facendo quando è uscito il sondaggio», ha scritto. «Volete sapere perché? È perché lavorare su una spiaggia non è qualcosa che la gente fa davvero. Le tue cose si rovinerebbero con la sabbia e con l’aria di mare. Il bagliore del sole renderebbe difficile vedere lo schermo e, soprattutto, amache, lettini e asciugamani stesi sulla sabbia non sono luoghi comodi da cui lavorare.»

Miceli conferma che nella comunità la distinzione tra chi prende seriamente questo stile di vita e chi invece lo racconta in maniera distorta e fuorviante sui social è molto sentita. «Io penso di non aver mai lavorato in spiaggia con un cocktail in mano e i piedi nella sabbia in vita mia: non siamo degli scappati di casa che vogliono stare in vacanza in piscina, siamo professionisti che ci tengono a fare bene il proprio lavoro, ma che semplicemente scelgono di farlo da un posto dove si sentono più produttivi», dice.

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Al di là dell’esperienza individuale, però, nel tempo sono state avanzate diverse critiche nei confronti del nomadismo digitale nel suo insieme. Alcune si concentrano sul fatto che, soprattutto dopo la pandemia, sono diversi i paesi che hanno iniziato a offrire visti lavorativi temporanei alle persone straniere che possono lavorare da remoto, e che queste politiche fanno gola anche perché permettono spesso di pagare meno tasse rispetto a quelle del proprio paese d’origine.

Ma, soprattutto, c’è chi sottolinea che il denaro spostato dai nomadi digitali non migliora necessariamente la vita dei luoghi dove decidono di viaggiare. «I nomadi digitali cercano località poco costose (per gli standard occidentali), dove possono facilmente spendere più dei residenti per mantenere una qualità della vita che sarebbe difficile da ottenere con i salari locali. Chiang Mai, in Thailandia, e Bali sono alcune delle principali destinazioni. E, com’era prevedibile, gli investitori cominciano a inseguire il denaro occidentale», spiega il giornalista Paris Marx.

«Gli spazi di coworking sono fioriti in queste città per rispondere all’afflusso di occidentali. I prezzi degli immobili sono aumentati perché i nomadi digitali possono pagare più delle persone del posto, spingendo i residenti di lunga data a trasferirsi per far posto ai nuovi arrivati bianchi e benestanti. Questa è una critica simile a quella mossa contro Airbnb, che toglie appartamenti dal mercato nelle principali città, limitando l’offerta e aumentando i costi degli alloggi per le persone del luogo, per servire turisti e visitatori a breve termine. Non sorprende che Airbnb sia molto popolare tra i nomadi digitali che si spostano verso nuove destinazioni e tra coloro che non stabiliscono una residenza permanente, optando invece per spostarsi ogni pochi giorni o settimane».

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