Cosa sono questi “Twitter Files”

Un noto giornalista americano ha pubblicato alcune mail – forse fornite da Elon Musk – su come fu presa una delle più controverse decisioni di moderazione nella storia della piattaforma

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Durante il weekend il reporter Matt Taibbi, autore di una seguita newsletter e molto noto nel giornalismo americano, ha pubblicato una serie di documenti ottenuti da «fonti interne a Twitter», che secondo molti gli sarebbero stati inviati direttamente dall’attuale amministratore delegato dell’azienda Elon Musk. I documenti, soprannominati “Twitter Files”, mostrano le discussioni avvenute tra vari dipendenti e manager di Twitter nei giorni successivi a una delle più controverse decisioni di moderazione dei contenuti nella storia della piattaforma: quella del 14 ottobre 2020, relativa a un articolo del tabloid New York Post che conteneva accuse gravi nei confronti di Hunter Biden, il figlio dell’allora candidato Democratico alla presidenza Joe Biden.

L’articolo raccontava di alcuni file ritrovati in un PC che si sosteneva appartenesse a Hunter Biden, in particolare dei video in cui fumava crack e faceva sesso, delle foto in cui compariva nudo e diverse mail che testimoniavano i suoi tentativi di far incontrare il padre con degli affaristi ucraini e cinesi con cui lavorava. In un secondo momento, altre inchieste avrebbero poi confermato che i tentativi c’erano effettivamente stati, pur ridimensionandone la rilevanza: nel caso dell’affarista ucraino si era trattato di una cena con altre dodici persone, mentre nel caso dell’imprenditore cinese Joe Biden aveva rifiutato l’incontro.

La notizia era stata fatta uscire soltanto un paio di settimane prima delle elezioni presidenziali, su una testata molto vicina ai Repubblicani e ritenuta generalmente poco affidabile per la tendenza sistematica a pubblicare storie sensazionalistiche e basate su fonti poco credibili, peraltro tra molti dubbi nella stessa redazione. Inoltre, fin dalla pubblicazione era circolato il sospetto che il materiale su cui si basava fosse stato ottenuto introducendosi illegalmente nel computer privato di Hunter Biden.

Secondo il New York Post, il computer era stato abbandonato in un negozio di riparazioni del Delaware (lo stato di provenienza della famiglia Biden), e il negoziante aveva spedito una copia dell’hard disk, in cui aveva trovato mail e video compromettenti, a Robert Costello (l’avvocato di Rudy Giuliani, all’epoca a sua volta avvocato di Donald Trump), che l’avrebbe poi fatto avere al New York Post. Non era chiaro, però, se i contenuti fossero stati soltanto copiati, rubati dal computer tramite hacking o addirittura falsificati per diffamare Biden in vista delle imminenti elezioni, come aveva ipotizzato la CNN.

Prima Facebook e poi Twitter avevano quindi deciso di limitare la diffusione dell’articolo. Twitter, in particolare, aveva preso delle decisioni fuori dal comune, bloccando per un paio di giorni il profilo ufficiale del New York Post, che è una testata giornalistica con una redazione e una sua storia, per quanto spesso controversa: non è, insomma, un sito di bufale come ce ne sono tanti online. Twitter aveva impedito temporaneamente a chiunque di pubblicare post che linkassero all’articolo e aveva poi aggiunto sotto ai tweet che includevano il link un avviso che diceva che la storia violava le regole di Twitter che vietano di pubblicare materiali ottenuti attraverso l’hacking. Tempo dopo, l’allora amministratore delegato di Twitter Jack Dorsey avrebbe detto di fronte al Congresso statunitense che bloccare la diffusione della notizia era stato un errore.

La decisione era stata immediatamente molto criticata, soprattutto da destra, e l’allora capo del settore legale dell’azienda Vijaya Gadde aveva spiegato che «la moderazione dei contenuti è incredibilmente difficile, specialmente nel contesto critico di un’elezione. Stiamo cercando di agire in modo responsabile e rapido per prevenire danni, ma stiamo ancora imparando strada facendo». Recentemente Yoel Rother, all’epoca a capo della divisione responsabile delle scelte sulla moderazione dei contenuti, ha detto che la decisione era stata presa perché l’azienda non era riuscita a verificare che la storia fosse vera, il che implica che il New York Post non fosse considerato una fonte sufficientemente credibile di per sé.

«Ma verificare le notizie è stata raramente, se non mai, parte degli scopi dichiarati di Twitter», ha scritto Blake Montgomery su Gizmodo commentando gli sviluppi più recenti della vicenda. «Questa eccezione sembrava essere un’interferenza intenzionale nel processo politico. Questa notizia in particolare è stata particolarmente difficile da verificare perché le persone che hanno affermato di aver trovato il laptop si sono rifiutate di condividerne i contenuti con testate diverse dal New York Post, quindi altri giornali non hanno potuto confermare le stesse conclusioni».

Venerdì scorso il nuovo proprietario di Twitter Elon Musk – che ha ripetutamente criticato il modo in cui la piattaforma gestiva la moderazione dei contenuti prima del suo arrivo – ha deciso di riaprire la questione, annunciando l’imminente pubblicazione della storia di «ciò che è veramente accaduto nella soppressione dell’articolo su Hunter Biden da parte di Twitter». Ha twittato poi un «sarà fantastico», seguito dall’emoji dei popcorn.

Matt Taibbi è un giornalista che negli anni Duemila e Dieci si era costruito una grande fama da reporter brillante e spesso sopra le righe, apprezzato in particolare tra i progressisti, mentre negli ultimi tempi si è occupato con toni spesso critici delle questioni legate alla cosiddetta “cancel culture”, guadagnando estimatori soprattutto tra i conservatori. Oggi scrive una sua newsletter, e venerdì ha pubblicato una lunghissima serie di tweet che includono gli screenshot a delle email scambiate all’interno di Twitter nei giorni successivi alla decisione sul PC di Hunter Biden.

I documenti, che lui stesso ha soprannominato “Twitter Files”, dimostrano secondo la ricostruzione di Taibbi da una parte i presunti favoritismi di Twitter verso i Democratici, e dall’altro le complesse, contraddittorie e per certi versi improvvisate modalità con cui si arrivò alla censura della notizia su Hunter Biden. Secondo molti commenti, in realtà, pur fornendo nuovi e interessanti elementi su quella vicenda, i documenti sono meno compromettenti di come li abbia presentati Taibbi. Questa impressione è stata manifestata anche tra chi avrebbe sperato in conferme maggiori: una giornalista del New York Post, Miranda Devine, ha detto al presentatore di Fox News Tucker Carlson che i documenti «non erano esattamente la prova schiacciante che speravamo di ottenere» e l’opinionista conservatore Sebastian Gorka si è detto «molto deluso».

I documenti mostrano diversi scambi di email tra le persone responsabili della decisione all’interno dell’azienda, leader politici esterni e il comitato elettorale di Biden dopo che la decisione era già stata presa. Nelle conversazioni i dipendenti di Twitter discutono animatamente di come attuare e spiegare una decisione difficile di moderazione dei contenuti. In un messaggio, ad esempio, l’allora vice avvocato generale di Twitter Jim Baker scrisse che «è ragionevole per noi presumere che i documenti possano essere stati hackerati e che la prudenza sia giustificata». In altri passaggi invece ci si domanda se l’azienda prenderà decisioni simili in futuro o se si sia trattato di un caso isolato. In nessun punto dei documenti però si discute in base a cosa sia stata presa la decisione iniziale.

Uno degli screenshot più controversi, che ha portato Musk ad accusare l’azienda (all’epoca della gestione di Jack Dorsey) di «aver agito su ordine del governo per sopprimere la libertà di parola senza basi giudiziarie», mostrava una mail indirizzata al team di moderazione dei contenuti in cui si diceva che il comitato di Biden aveva segnalato dei tweet “da revisionare”, poi prontamente rimossi.

Il giornalista investigativo Andrew Kerr, però, ha trovato in un archivio online tre dei cinque tweet segnalati e ha fatto notare che tutti includevano foto del pene di Hunter Biden o video a sfondo sessuale che lo ritraevano, che in quanto condivisi senza il consenso dell’uomo erano contrari alle linee guida di Twitter sul revenge porn. Inoltre, il comitato elettorale di Joe Biden non è un ente governativo e, di conseguenza, le email non dimostrerebbero una collusione tra Twitter e il governo statunitense a favore dell’elezione di Joe Biden: anche perché al governo all’epoca dei fatti c’era Donald Trump. Lo stesso Taibbi ha sottolineato che «non c’è nessuna prova – che io sappia – di un’ingerenza governativa nella storia del PC».

Una delle principali accuse sollevate da Taibbi è che entrambi i grandi partiti politici statunitensi avessero un canale diretto per segnalare i tweet indesiderati all’azienda, perché venisse presa in considerazione la loro rimozione. Taibbi però sostiene che i Democratici ricevessero un trattamento preferenziale, perché i dipendenti di Twitter sono stati a lungo considerati molto progressisti e i dati pubblici indicano che la grandissima maggioranza di loro faceva donazioni politiche al Partito Democratico. Taibbi spiega che nonostante le segnalazioni arrivassero sia dai Repubblicani sia dai Democratici, «ci si basava sui contatti personali», insinuando quindi che ci fosse più attenzione per le richieste dei Democratici (insinuazione che però di per sé non è provata nei documenti).

«Sebbene sia emozionante ricevere documenti mai pubblicati in precedenza, è anche possibile che quei documenti siano noiosi e che ti dicano cose che sai già», ha scritto Montgomery su Gizmodo. «Questo è il caso dei Twitter Files. Abbiamo scoperto come Twitter è arrivato alla decisione di bloccare la storia del New York Post, ma non abbiamo scoperto una nuova scioccante ragione per cui l’hanno fatto. Sapevamo che Twitter aveva soppresso la storia prima della diffusione di questi documenti e conoscevamo i nomi della maggior parte delle persone coinvolte. Quando hanno deciso di mettere sotto quarantena digitale la storia del New York Post, quelle persone hanno agito per fedeltà a Joe Biden e al Partito Democratico? Per opposizione al Partito Repubblicano e odio per Donald Trump? Per disgusto per il New York Post? A giudicare dai documenti che abbiamo, non sappiamo la risposta. È stata una drastica interferenza nel processo politico? Sì. Lo sapevamo già».

«Eppure, non è scioccante che Twitter abbia utilizzato una decisione ad hoc per moderare un contenuto di uno dei tabloid più famosi d’America», conclude Montgomery. «Il social network faceva la stessa cosa da anni nella lotta contro i propri utenti più tossici, tra cui nazionalisti bianchi violenti, transfobici virulenti, molestatori e prepotenti di ogni colore politico. L’azienda non ha mai avuto pieno controllo sulla moderazione dei contenuti, e sicuramente non ce l’ha adesso. (…) Jack Dorsey e tutti i suoi dirigenti hanno inventato le risposte di caso in caso, esattamente come sta facendo Musk ora».

Pur contenendo meno novità del previsto, i Twitter Files possono essere utili per capire meglio il funzionamento interno di un’azienda come Twitter, che pur essendo uno dei social network più piccoli (tra quelli “di massa”) nell’ultimo decennio ha accumulato moltissimo potere e influenza nel dibattito pubblico e nel funzionamento delle democrazie, soprattutto grazie al fatto che ad utilizzarlo sono tantissimi politici, celebrità e giornalisti.

È interessante scoprire, ad esempio, che l’allora CEO Jack Dorsey non fu incluso nella decisione fino all’ultimo momento, e che gli esperti stessi all’interno dell’azienda non erano sicuri che censurare l’articolo fosse la scelta giusta da fare. In una mail, ad esempio, l’ex vicepresidente della sezione Comunicazione di Twitter Brandon Borrman chiese se gli altri fossero davvero sicuri che l’articolo del New York Post violasse la politica dell’azienda sull’hacking.

In un altro passaggio, Taibbi mostra anche come un deputato democratico, Ro Khanna, avesse contattato Twitter manifestando preoccupazioni sul fatto che la decisione di censurare l’articolo del New York Post non rispettasse la libertà di stampa e d’espressione, sancita dal Primo Emendamento della Costituzione. Alle sue email, i rappresentanti di Twitter risposero indicando quali punti dei propri regolamenti aziendali erano potenzialmente violati dall’articolo, cosa che non bastò a rassicurare Khanna, che continuò a esprimere riserve sull’opportunità di nascondere un articolo pubblicato da un giornale vero, per quanto spesso non affidabile, su un candidato alla presidenza a pochi giorni dalle elezioni: «nel pieno della campagna elettorale, limitare la circolazione di un articolo di giornale fa più male che bene».