Una canzone dei Groove Armada

Divagazioni su cover, compilation e mashup

Matt Cardy/Getty Images)
Matt Cardy/Getty Images)

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Paul Weller pubblicherà a dicembre la registrazione di un suo concerto con la BBC Symphony Orchestra.
Questo anniversario dei 50 anni di Blue di Joni Mitchell – di cui dicevamo ieri – non si capisce bene quando sia, forse oggi, forse lunedì: ma è normale che le uscite dei dischi – soprattutto di mezzo secolo fa – non siano sempre definite con grande esattezza, e magari sono state molto diverse in diversi posti del mondo, in tempi in cui poi le spedizioni non arrivavano tempestive ovunque. Comunque, se non volete leggervi tutte le celebrazioni che stanno uscendo sui giornali e siti internazionali, vi metto qui solo due canzoni di Blue, per cominciare chi dovesse ancora cominciare. Una è River, una è A case of you (adorata e ricantata da tantissimi). Vabbè, anche All I want, che 25 anni fa la scegliemmo per colonna sonora di un documentario che fu una delle primissime cose che montai nella mia casuale e breve carriera di montatore Avid, di cui non mancherò di dire, un giorno o l’altro. Qui c’è tutto il disco su Spotify.
Intanto oggi ha 60 anni Jimmy Sommerville, che fece una cosa indimenticabile e magnetica la prima volta, coi Bronski Beat, poi si arrabattò e sparì presto dalle scene maggiori (ma a me piaceva anche la loro versione di Ain’t necessarily so dei Gershwin).

At the river
Groove Armada

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Quando ero ragazzo io non c’erano le “cover”: o meglio, c’erano, ma nessuno aveva ancora pensato di chiamarle cover, e non riesco a ricordarmi se le chiamassero in qualche modo. Cioè, quando qualcuno ricantava una canzone già pubblicata da qualcun altro, a Discoring come dicevano? Ho l’impressione che qualche termine si usasse, ma magari mi sbaglio (per esempio, è buffa la breve durata delle fortune del termine “compilation”, che negli anni Ottanta apparve, travolse per un po’ le classifiche, e diventò rapidamente sfigato e impresentabile oggi).

Comunque, poi le cose si complicarono anche per le cover, perché le tecnologie permisero non tanto di ricantare daccapo delle canzoni già edite ma pure di prendere le versioni originali e smontarle, tagliuzzarle, rimescolarle con questo e quello, aggiungere suoni nuovi, e tirarne fuori cose mezze vecchie, mezze riciclate, mezze nuove (totale uno e mezzo, lo so). Ora invece mi è venuta in mente quella cosa che fecero Jovanotti e Luca Carboni, limitandosi a sommare due canzoni diverse che sembravano fatte l’una per l’altra, in rapporto equivalente e compenetrato. Vabbè, divagazioni.

Invece, quelli che più si sbizzarriscono da decenni a fare dei veri e propri “mashup” (termine altrettanto arrivato a un certo punto, ma poi mescolare è diventato la norma – anche perché più passa il tempo e meno c’è da inventare – e ha perso molto significato) sono soprattutto quelli dell’elettronica e della dance, per natura dei generi. Chissà perché, nell’elettronica ci sono spesso dei “dui” (duos? c’è un duo, anzi molti): probabilmente perché due bastano, dovendo suonare poco.
I Groove Armada sono inglesi, furono su una loro breccia alla fine degli anni Novanta frequentando tutta quella voga che si chiamò “chill out” o “lounge” (ne avevamo parlato altre volte). E una delle loro cose che arrivò a più orecchie, dal 1997 in poi, prese un vecchio classico melodico di prima che esistesse persino il rock, cantato dall’americana Patti Page (e dedicato a Cape Cod, e mi fermo prima della digressione su Cape Cod ma non senza mostrarvi una coda di balena), e ci aggiunse una base ritmica facile ma perfetta, e soprattutto degli intervalli di trombone e tastiere fantastici.
Qui c’è Patti Page che la fa ancora mezzo secolo dopo la prima volta (lei è morta nel 2013).


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