17 grandi canzoni di Bob Dylan

Da ascoltare oggi che compie ottant'anni, ma buone in fondo per qualsiasi altro giorno dell'anno

Il murale di Bob Dylan a Minneapolis, in Minnesota, lo stato americano in cui è nato ottant'anni fa (Adam Bettcher/Getty Images)
Il murale di Bob Dylan a Minneapolis, in Minnesota, lo stato americano in cui è nato ottant'anni fa (Adam Bettcher/Getty Images)

Il cantautore americano Bob Dylan, nato a Duluth, in Minnesota, il 24 maggio 1941, compie oggi ottant’anni. Qui di seguito le sue migliori canzoni scelte a suo tempo da Luca Sofri, peraltro direttore del Post, per il libro Playlist.

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Quando vai a un concerto di Bob Dylan e lo guardi – mentre lui snocciola tiritere ormai incomprensibili – vedi il mito, la raffigurazione del mito, mezzo secolo di storia, vedi Bobdìlan: potrai dire ai tuoi figli “io e tua madre cantavamo ‘Blowin’ in the wind’ ai concerti di Bob Dylan” (e loro risponderanno “sì, ce l’ha detto anche il nonno”). E pensi, Bob Dylan ha mai riso? L’hai mai visto ridere? Che uomo è questo, che si comporta con una modestia e una timidezza che forse sono l’unico modo per riuscire a essere il mito (chi c’è, in giro, come lui? Prima c’era il papa, ma ora?). È uno che è diventato una leggenda un po’ per bravura, un po’ perché le cose capitano, e ha saputo comportarsi da leggenda con una discrezione e un’eleganza di cui pochissimi sarebbero stati capaci. Cosa accidenti pensa, Bobdìlan, mentre canta “Forever Young”?

Don’t think twice, it’s all right
(The freewheelin’ Bob Dylan, 1963)
“Qualcuno pensa che sia una specie di canzone d’amore, ma no. È un modo per sentirsi meglio, come parlare tra sé e sé”, disse poi Dylan. E però la sua fidanzata Suze Rotolo, quella sulla copertina del disco sottobraccio a lui, in quel periodo era sempre via, ed è facile mettere le cose in relazione. La canzone deve molto, in musica e testo, al cantautore Paul Clayton, che si sarebbe ucciso quattro anni dopo, fulminandosi nella vasca da bagno.


It ain’t me babe
(Another side of Bob Dylan, 1964)
Qualcuno dice che Dylan volesse alludere alle eccessive pretese del suo pubblico, ma letteralmente parla di una ragazza. “Levati pure di torno, non sono io quello che vuoi. Dici che vuoi qualcuno che sia sempre forte, ti protegga e ti difenda. Beh, non guardare me. Dici che cerchi uno che ti dica che non vi lascerete mai. Beh, quello non sono io”.


It’s all over now, baby blue
(Bringing it all back home, 1965)
Una successione di immagini complesse e un po’ criptiche per far capire a “baby blue” che è venuto il momento di mollare il colpo. Dopo, anni di riflessioni su chi sia “baby blue”. Candidati: quasi tutti fuorchè Babbo Natale. Armonica, chitarra e basso, e il modo in cui lui lo dice: “and it’s all over now, baby blue”. Delle molte covers, ce n’è una leggendaria di Van Morrison con i Them.


Like a rolling stone
(Highway 61 revisited, 1965)
Se non vi bastasse il resto, è la canzone di maggior successo commerciale nella carriera di Bob Dylan. Piuttosto rivoluzionaria all’epoca: si avventurava in arrangiamenti e produzioni che fecero storcere il naso ai puristi del suono folk di Dylan, e aveva una lunghezza anomala per il formato radiofonico dell’epoca. «Nessuna altra canzone ha mai messo così tanto in discussione le leggi commerciali e le convenzioni artistiche del suo tempo» dice Rolling Stone (il giornale che l’ha dichiarata nel 2004 la più grande canzone di tutti i tempi: ma c’è un conflitto di interessi). Di chi parla, la canzone? Di voi tutti, ovviamente: ma da anni si accavallano le teorie per cui Dylan si sarebbe ispirato a Edie Sedgwick, (modella e musa del giro warholiano) o a se stesso.


I want you
(Blonde on blonde, 1966)
Ne aveva già combinate parecchie, quando scrisse la migliore canzonetta da juke-box della sua carriera. Dice che lui la vuole, e lo dice parecchio: ma in mezzo c’è tutto un casino di gente e accadimenti che in qualche modo non chiarissimo tendono a ostacolare questo suo desiderio. E un’armonica.


Just like a woman
(Blonde on blonde, 1966)
Le scuole di pensiero hanno via via trovato un compromesso sul fatto che la woman di cui parla non sia una sola, ma almeno due: Edie Sedgwick e Joan Baez. Dylan la scrisse nel giorno del Ringraziamento del 1965 a Kansas City, dove era in tournée.


Stuck inside of mobile with the Memphis blues again
(Blonde on blonde, 1966)
Roba allegra, bel ritmo, e testo acrobatico e misterioso che suggerì persino una parodia a John Lennon, intitolata “Stuck Inside of Lexicon with the Roget’s Thesaurus Blues Again”: “Incastrato nella lingua con la malinconia da dizionario”. Ne ha fatto una bella cover Cat Power, nel 2007.


Positively fourth street
(Bob Dylan’s greatest hits, 1967)
Benché il testo sia chiarissimo – uno sfogo contro un’ipocrita che ha sempre finto di volergli bene e intanto desiderava il suo male – ci furono da subito dei misteri: di chi parla? C’è una relazione con il protagonista di “Like a rolling stone”, che seguiva di poco? Che vuol dire il titolo? Le teorie vanno avanti da trent’anni: probabilmente Dylan ce l’aveva con qualcuno del Greenwich Village (dove sta una 4th street: ma è papabile anche quella di Minneapolis) che aveva criticato il suo abbandono del folk acustico.


All along the watchtower
(John Wesley Harding, 1967)
“Ci dev’essere un modo di uscirne”. Ma è uno degli ingressi dylaniani più riusciti e leggendari. Citazioni bibliche, fine del mondo, gran tensione. La cover di Jimi Hendrix divenne presto più celebre dell’originale e lo stesso Dylan prese a suonarla alla maniera di Hendrix.


Lay lady lay
(Nashville skyline, 1969)
Sarà la suggestione, ma è difficile non avere l’impressione che “Lay lady lay” suoni esattamente come una avvenente signora sdraiata su un letto disfatto. Saranno quelle quattro note di steel guitar che scivolano sotto le strofe. Come la canta, non sembra lui: e i fans allora rimasero spiazzati (si disse che la voce era cambiata perché aveva smesso di fumare). L’aveva scritta per Un uomo da marciapiede: ma poi scelsero “Everybody’s talkin’” di Harry Nilsson.


The man in me
(New morning, 1970)
È quella dove Dylan fa “lalla lalla lallà lalalà”, chissà cosa gli era preso. E il testo è maschilisticamente vicino a “dietro ogni grand’uomo c’è una grande donna”. Si meritò una nuova popolarità quando i fratelli Coen la ripescarono per Il grande Lebowski.


Wigwam
(Sel portrait, 1970)
Uno strumentale canticchiato ebbramente, come da uno che si trascina in fondo alla parata cercando di rimanere in contatto con il resto della banda. Molto divertente e appiccicoso. Fu usato poi nel film di Wes Anderson, I Tenenbaum. Sull’anomalia del disco di cover e strumentali che lo conteneva, vale la pena ricordare la reazione su “Rolling Stone” del leggendario critico rock Greil Marcus: “Che è ‘sta merda?”.


Forever young
(Planet waves, 1974)
Più facile e ruffiana della maggior parte delle canzoni di Dylan, “Forever young” è una delle sue cose più amate e popolari. In realtà la sua incisione fu lunga e laboriosa: Dylan l’aveva in testa da anni (un augurio sentimentale e commosso ai suoi figli, come “Avrai” di Baglioni e “Per te” di Jovanotti) e non voleva convincersi di nessuna versione provata. Quando sembrava quasi fatta, la ragazza che era venuta in studio con un suo vecchio amico gli disse “Bob, invecchiando mi diventi sentimentale” e lui andò in crisi. Alla fine si convinse, e la sta cantando ancora adesso.


You’re a big girl
(Blood on the tracks, 1975)
È il modo in cui lui fa “ooooooh!”.


Hurricane
(Desire, 1976)
“Hurricane” è una gran canzone, incalzante, con la stessa progressione di “All along the watchtower”, ed è anche uno degli ultimi singoli di successo di Dylan. Racconta del pugile Ruben Carter, accusato ingiustamente di omicidio. Il grosso del lavoro lo fa il violino di Scarlet Rivera. Il caso Carter fu chiuso dieci anni dopo, quando l’accusa decise di ritirarsi dopo che una sentenza aveva annullato le precedenti condanne. Nel 1999 venne anche il film con Denzel Washington.


Sweetheart like you
(Infidels, 1983)
“Cosa ci fa un bocconcino come te in una topaia come questa?”. Solo con questo verso, uno può entrare nella storia della musica. Lui c’era già, e non a caso. Quelli che suonano le chitarre, lì dietro, sono Mark Knopfler e Mick Taylor. “Sweetheart like you” ha tutta una sua filologia di metafore e riferimenti al mondo e all’America. Dice anche: “sai, una volta conoscevo una ragazza come te, che voleva un uomo tutto intero, non solo una metà”. Già, ma quell’uomo non era lui, babe.


You belong to me
(Natural born killers, 1994)
“See the pyramids along the Nile…”. L’aveva scritta Chilton Price nel 1952. L’ha cantata un sacco di gente, ma nessuno così bene come Bob Dylan nella colonna sonora di Natural born killers: nel cd è registrata con un dialogo del film sovrapposto alla coda. Il film è una baracconata retorica, ma la canzone è la fine del mondo.