(David McNew/Getty Images)

La ricerca del farmaco giusto contro il coronavirus

Nonostante la SARS e la MERS siamo senza trattamenti specifici di cui abbiamo grande necessità, anche per il futuro

Mentre in meno di un anno è stato possibile realizzare e iniziare a somministrare i primi vaccini contro il coronavirus, lo sviluppo di farmaci specifici contro la COVID-19 è proceduto a rilento. I medici hanno per lo più a disposizione strumenti per attenuare i sintomi e aiutare l’organismo a superare la malattia e poco altro.

Alcuni medicinali ritenuti promettenti all’inizio dello scorso anno, come il Remdesivir, si sono rivelati meno efficaci del previsto e potrebbe essere necessario ancora molto tempo prima di avere medicinali studiati appositamente per trattare la COVID-19. Nonostante le difficoltà, le ricerche continuano non solo per trovare terapie più adeguate all’attuale malattia, ma anche per cercare di non farsi cogliere impreparati nel caso di una prossima pandemia.

Tempo perduto
Come hanno spiegato numerosi epidemiologi ed esperti, in passato avevamo assistito a diverse avvisaglie su che cosa sarebbe potuto accadere nel caso della diffusione di un nuovo virus verso il quale non saremmo stati protetti. Quegli indizi furono ampiamente ignorati e sottovalutati, perdendo tempo prezioso che istituzioni sanitarie, centri di ricerca e aziende farmaceutiche avrebbero potuto utilizzare per sviluppare nuovi medicinali e piani per distribuirli.

Solo nel 2003 ci furono almeno un paio di quelle avvisaglie. Alcuni ceppi del virus dell’influenza passarono dagli uccelli ad alcuni esseri umani a Hong Kong e nei Paesi Bassi, con il rischio che si diffondesse una nuova forma influenzale con un alto tasso di letalità. Inoltre, un coronavirus fino ad allora sconosciuto iniziò a diffondersi dall’Asia in diversi altri paesi, causando una grave malattia respiratoria (la SARS) difficile da trattare. L’impressione degli esperti, ricorda un lungo articolo di Nature, era che fossimo a un passo da una pandemia.

SARS e MERS
L’identificazione relativamente rapida dei nuovi ceppi di influenza aviaria e il contenimento della SARS – meno contagiosa della COVID-19 (le due malattie sono causate da coronavirus simili) – evitarono lo scenario peggiore, ma alcuni esperti invitarono i governi e le istituzioni internazionali a non abbassare la guardia. Suggerirono non solo di mantenere i controlli, ma anche di proseguire nello sviluppo di farmaci in grado di contrastare diversi tipi di virus, in modo da averli a disposizione nel caso di un’emergenza sanitaria.

La progressiva scomparsa della SARS fece però ridurre in breve tempo l’attenzione delle istituzioni e l’interesse di buona parte dei ricercatori. La malattia non costituiva più una minaccia e la percezione del pericolo era sfumata, rendendo meno vantaggioso anche dal punto di vista economico lo sviluppo di medicinali contro quel coronavirus e i suoi parenti più stretti.

Nel 2012 un nuovo coronavirus iniziò a causare problemi in Medio Oriente, portando a sindromi respiratorie difficili da trattare e ad altri sintomi che furono definiti con la sigla MERS. Dopo le preoccupazioni iniziali, anche in questo caso la malattia fu contenuta relativamente in fretta e prima che causasse una pandemia. Non furono sviluppati farmaci specifici per trattarla e secondo diversi osservatori si perse una nuova opportunità per affrontare il problema dei coronavirus in generale, come era già avvenuto nove anni prima con la SARS.

È difficile dire se un approccio diverso all’epoca, più cauto e previdente, avrebbe consentito di avere da subito farmaci efficaci contro il coronavirus con cui facciamo ancora oggi i conti (SARS-CoV-2). Forse avremmo avuto a disposizione qualche risorsa per trattare meglio la COVID-19 e prevenire le sue forme più gravi, o per lo meno qualche base scientifica in più da cui partire per sviluppare nuovi medicinali.

Nuovi farmaci
Nell’ultimo anno diversi centri di ricerca in giro per il mondo hanno avviato lo sviluppo e la sperimentazione di nuovi farmaci, partendo da idee già esplorate in passato o tentando strade ancora poco esplorate. Una coalizione di aziende farmaceutiche ha avviato svariati programmi di ricerca su coronavirus e virus influenzali, mentre negli Stati Uniti i National Institutes of Health (NIH) hanno avviato un progetto piuttosto ambizioso per sviluppare terapie contro il SARS-CoV-2 e altri virus che potrebbero portare a nuove pandemie.

Il progetto presso gli NIH è portato avanti dall’Antiviral Drug Discovery and Development Center (AD3C), iniziativa avviata sette anni fa per la ricerca e lo sviluppo di farmaci contro i virus (i cosiddetti “antivirali”). L’obiettivo principale dell’iniziativa è di verificare se tra i farmaci già esistenti ci siano principi attivi che possano rivelarsi utile nel bloccare i virus influenzali, i coronavirus e altre famiglie di virus legate a malattie come dengue e Zika.

Nel 2017 i ricercatori dell’AD3C notarono che il Remdesivir, un farmaco sviluppato contro l’Ebola, aveva una certa efficacia nell’impedire ai coronavirus di replicarsi in alcune cavie animali. Quando iniziò la pandemia nel 2020 furono avviati i primi test per comprendere se il farmaco fosse utile contro il SARS-CoV-2. Fu notata la sua capacità di accelerare il recupero in alcuni pazienti ricoverati in ospedale per COVID-19, ma nel complesso il farmaco mostrò di non essere la soluzione contro la pandemia, un problema comune ad altre soluzioni esplorate comprese quelle sugli anticorpi monoclonali per i quali sono necessari ulteriori approfondimenti.

Negli ultimi mesi le speranze si sono spostate sul Molnupiravir, un altro farmaco antivirale in attesa di autorizzazione e che sembra avere la capacità di ridurre la durata dell’infezione da SARS-CoV-2. L’AD3C lo aveva già preso in considerazione prima del 2020, notando segni promettenti nel contrastare altri tipi di virus.

Gli antivirali come il Molnupiravir hanno la capacità di interferire con i processi che i virus sfruttano per replicarsi all’interno delle cellule. Uno degli obiettivi è un particolare enzima (polimerasi) coinvolto nella trascrizione del materiale genetico virale, cioè le istruzioni che servono alla cellula per produrre le nuove copie del virus. Il farmaco fa sì che la polimerasi trascriva nel modo sbagliato le istruzioni, rendendo impossibile la replicazione del virus.

Un antivirale di questo tipo ha di solito maggiori possibilità di successo e funziona su diversi tipi di virus, appartenenti alla stessa famiglia. Altri antivirali intervengono bloccando direttamente le funzioni degli enzimi, ma sono molto più specifici e quindi meno versatili. Negli anni ne sono stati sviluppati di efficaci contro l’HIV e contro l’epatite C, ma per arrivare a risultati concreti hanno richiesto lunghi tempi di sviluppo, che non sarebbero compatibili con quelli di un’emergenza sanitaria dovuta a una pandemia come l’attuale. Farmaci più versatili consentirebbero di avere pronte da subito soluzioni contro le pandemie causate da virus appartenenti a una determinata famiglia, al di là delle loro specifiche caratteristiche.

Sviluppare medicinali così versatili non è però semplice, per questo alcuni ricercatori ritengono che ci siano maggiori possibilità di successo con gruppi più ristretti di virus con caratteristiche simili. Nel caso dei coronavirus, si stanno valutando soluzioni contro sottogruppi come gli alfacoronavirus e i betacoronavirus, cui appartengono i virus che causano SARS, MERS e COVID-19. In questo modo si potrebbero sfruttare gli enzimi in comune tra i virus imparentati tra loro, rendendo efficace il farmaco contro più infezioni.

Altri ricercatori stanno invece mantenendo un approccio a più ampio spettro, basandosi su alcuni principi di funzionamento in comune tra tipi diversi di virus. Il loro obiettivo è un enzima sfruttato da vari virus per entrare nelle cellule e replicarsi. Un gruppo di ricerca sta sperimentando un farmaco che danneggia l’involucro lipidico (cioè fatto di grassi) dei virus, in modo da esporne il contenuto e privarli dei sistemi per penetrare nelle membrane cellulari. L’involucro lipidico è comune a un’ampia varietà di virus, e potrebbe quindi rendere un singolo farmaco efficace contro molti di loro.

Non tutti sono però convinti che gli approcci orientati verso gli enzimi o le membrane lipidiche dei virus siano la scelta ideale. Il nostro organismo sfrutta soluzioni simili per diverse attività che potrebbero essere ostacolate da questi farmaci, con possibili effetti collaterali di rilievo. L’impiego di questi medicinali sarebbe però limitato nel tempo, in corrispondenza delle fasi acute di un’infezione virale, e ciò dovrebbe far ridurre i rischi di effetti indesiderati tra i pazienti.

Rilancio
In concomitanza con la pandemia da SARS-CoV-2 alcune aziende farmaceutiche hanno rispolverato vecchi progetti, avviati durante l’epidemia di SARS e poi archiviati, quando la malattia era stata contenuta. L’azienda statunitense Pfizer, per esempio, nel 2003 aveva avviato lo sviluppo di una molecola in grado di inibire l’attività della proteasi principale (Mpro), un enzima che ha il compito di spezzettare le proteine virali per renderle funzionali. Il progetto fu ripreso nel 2020 quando divenne evidente che la Mpro del SARS-CoV-2 avesse molto in comune con quella del coronavirus della SARS.

Dopo una nuova fase di sviluppo, facilitata dall’avere già acquisito alcune conoscenze 18 anni fa, il farmaco sperimentale è entrato nella prima fase di test clinici lo scorso autunno. Pfizer è l’unica azienda farmaceutica a essere così avanti nella sperimentazione di un farmaco di questo tipo e ha da poco iniziato i test per una soluzione simile, che ha il vantaggio di essere somministrata per via orale e non tramite iniezione.

La svizzera Novartis è al lavoro su un inibitore della Mpro che potrebbe funzionare su più coronavirus. Sarà però necessario almeno un anno prima di arrivare ai test clinici, che potrebbero quindi iniziare a pandemia ormai sotto controllo.

Altre aziende farmaceutiche non hanno potuto fare affidamento su lavori svolti in passato e sono quindi in ritardo, per lo meno rispetto a Pfizer. Alcune di queste si sono unite nella COVID R&D Alliance, una collaborazione tra 20 aziende farmaceutiche, di biotecnologie e società di investimenti, con l’obiettivo di sviluppare farmaci antivirali ad ampio spettro per trattare non solo le malattie da coronavirus, ma anche le sindromi influenzali. Nei prossimi mesi, ha spiegato uno dei responsabili dell’iniziativa a Nature, la collaborazione confida di portare avanti lo sviluppo di almeno 25 antivirali sperimentali, nella speranza che la sperimentazione su volontari riveli una buona efficacia di alcune di queste soluzioni.

Nonostante il fermento intorno allo sviluppo di nuovi farmaci antivirali, analisti e osservatori segnalano che al momento sforzi e investimenti continuano a non essere adeguati rispetto alle minacce che potremmo incontrare in futuro. L’attuale pandemia ha comunque mostrato quale siano l’effettiva portata e le conseguenze di queste minacce, più di quanto avessero fatto SARS e MERS negli anni scorsi. Il lavoro di ricerca e sperimentazione in corso in numerosi laboratori in giro per il mondo forse non servirà molto per risolvere i problemi attuali, ma sarà centrale nel caso di una nuova pandemia.

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