In Francia dicono di essere riusciti a coltivare il tartufo bianco

Come per altri funghi pregiati attualmente la produzione è limitata a quelli che crescono spontaneamente, nonostante molti tentativi

di Ludovica Lugli

Un tartufo bianco all'asta nel castello di Grinzane Cavour, in provincia di Cuneo, il 10 novembre 2019 (Giorgio Perottino/Getty Images for Ente Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d'Alba)
Un tartufo bianco all'asta nel castello di Grinzane Cavour, in provincia di Cuneo, il 10 novembre 2019 (Giorgio Perottino/Getty Images for Ente Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d'Alba)

Martedì un istituto di ricerca nazionale francese ha annunciato di essere riuscito a coltivare il tartufo bianco, una delle specie di funghi più pregiate al mondo. È anche una delle molte specie di funghi che non si riesce a coltivare, sebbene ci si provi fin dagli anni Settanta. I tartufi bianchi crescono spontaneamente solo in alcune zone dell’Italia (in particolare intorno ad Alba, in Piemonte), dei Balcani e più raramente in Svizzera e nel sud-est della Francia, ma in quantità limitate, che diminuiscono se non ci si prende cura dei boschi. La possibilità di ottenerne in maggiore quantità grazie a tecniche di coltivazione è quindi una notizia importante per il mondo dei tartufai.

I tartufi bianchi sono molto ricercati per il sapore straordinario che li contraddistingue, ma per via della loro rarità sono anche molto costosi. Il prezzo al chilo varia tra 1.500 e 3.000 euro a seconda dell’abbondanza del raccolto annuale, che generalmente è nell’ordine di qualche decina di tonnellate. In certe aste possono anche raggiungere la quotazione di 50mila euro al chilo. Per questo è da decenni che in Italia e non solo si fanno degli studi per capire come favorirne la produzione o addirittura riuscire a coltivarli, come si fa da più di cinquant’anni con i meno pregiati tartufi neri.

L’Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement (INRAE) dice di esserci riuscito in Nuova Aquitania, una regione della Francia dove i tartufi bianchi non si trovano in natura. Questo risultato, presentato in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Mycorrhiza, è stato ottenuto grazie a una collaborazione con il vivaio Robin di Saint-Laurent-du-Cros, un comune della Provenza-Alpi-Costa Azzurra, iniziata nel 1999. Per capire come, però, bisogna sapere alcune cose sui funghi, a partire dal fatto che il verbo “coltivare” è in realtà impreciso quando si parla di tartufi.

I funghi che si trovano al supermercato, come gli champignon e gli orecchioni, si possono coltivare facilmente anche in casa: basta avere a disposizione uno spazio umido e buio, e un substrato per la coltivazione che contenga sostanze nutritive per i funghi (possono funzionare anche i fondi di caffè). A quel punto per avviare una coltivazione basta aggiungere del micelio, quell’intreccio di filamenti sotterranei che è il “corpo” vero e proprio dei funghi – quelli che mangiamo e chiamiamo funghi sono invece i “corpi fruttiferi” del micelio.

Coltivare i tartufi bianchi e molte altre specie di funghi, tra cui i porcini, non è altrettanto semplice perché sono funghi micorrizici. Significa che il loro micelio cresce solo in associazione con le radici di una pianta. È un tipo di simbiosi: i funghi micorrizici estraggono dal suolo dei minerali utili alle piante per crescere; le piante “in cambio” forniscono ai funghi gli zuccheri che producono grazie alla fotosintesi. Per via di questa simbiosi, “coltivare” funghi micorrizici significa in realtà coltivare le specie di alberi insieme ai quali crescono, condizionandole in modo da ottenere un gran numero di corpi fruttiferi.

Dal 2008 il vivaio Robin vende giovani piante di roverella (un tipo di quercia) le cui radici sono legate a micelio di Tuber magnatum. Il vivaio spiega a chi compra queste piante che non c’è certezza di successo, ma dà istruzioni su come devono essere il terreno e il clima per essere favorevoli alla crescita dei tartufi. L’INRAE, da parte sua, si occupa di certificare la presenza del fungo in ognuna delle piante vendute grazie ad analisi del DNA. Inoltre negli anni ha seguito la messa a dimora e lo sviluppo di alcune roverelle che sono state piantate in regioni dove normalmente i tartufi non crescono.

In totale l’INRAE ha studiato cinque tentativi di coltivazione del tartufo bianco. Finora ha rilevato la permanenza del micelio, a distanza di 3-8 anni dalla messa a dimora delle roverelle, in quattro piantagioni, che si trovano in tre regioni con climi diversi: il Rodano-Alpi, nella Francia sud-orientale, la Borgogna-Franca Contea, più a nord, e la Nuova Aquitania. Nel 2019 nella piantagione della Nuova Aquitania sono stati raccolti tre tartufi, nel 2020 quattro: è per questo che i ricercatori dell’INRAE dicono di essere riusciti a coltivare il tartufo bianco.

In passato erano già stati fatti tentativi simili, anche in Italia, ma dato che gli esperimenti erano stati condotti in zone in cui i tartufi bianchi crescono spontaneamente non si è mai potuto dire con certezza se fossero cresciuti grazie all’intervento umano o meno.

Michel Tournayre, presidente della Fédération française des trufficulteurs, ha definito l’annuncio dell’INRAE «un grande sviluppo», facendo notare che i prezzi dei tartufi bianchi sono tre volte più alti di quelli dei tartufi neri, i più diffusi in natura e già coltivati in Francia. Attualmente il 90 per cento della produzione francese di tartufi neri proviene da piante coltivate.

Anche Mauro Carbone, direttore del Centro nazionale studi del tartufo di Alba, è ottimista. «Siamo molto felici se qualcuno porta dei risultati di questo tipo, è una sfida molto intrigante per tutti» ha detto al Post. Riuscire ad aumentare la produzione di tartufi bianchi sarebbe importante anche per i territori dove crescono spontaneamente perché, spiega Carbone, «c’è un calo della produzione naturale che è preoccupante» e «le aree di produzione spontanea sono sempre meno», nonostante in Piemonte si investa molto per la manutenzione dei boschi. Infatti non tutte le querce che crescono in territori adatti diventano “produttrici” di tartufi bianchi: non sappiamo bene perché, dato che ci sono ancora molti aspetti sconosciuti sul rapporto di simbiosi che lega questi funghi agli alberi.

Carbone dunque non è preoccupato per le eventuali ripercussioni economiche che la scoperta francese potrebbe avere sul mercato dei tartufi italiani – «Mi preoccupo di più quando mi dicono che una pianta che produce tartufi è stata abbattuta» – ma vede un vantaggio per tutti nel risultato dell’INRAE.

Pensa qualcosa di simile anche Michele Filippo Fontefrancesco, antropologo e ricercatore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, esperto delle pratiche culturali legate alla raccolta dei tartufi: «Ciò che rende speciale il tartufo bianco in Italia è la tradizione culturale che c’è attorno. Si apprezza il tartufo di Langa per l’odore e l’aroma, ma anche per la parte di magia legata alla conoscenza viscerale del territorio e degli animali, i cani in particolare, con cui si cercano i tartufi». Se anche in futuro i tartufi bianchi dovessero arrivare in tutti i supermercati – una prospettiva in ogni caso lontana – secondo Fontefrancesco sarà importante «valorizzare la specificità italiana e le diverse tradizioni italiane dei tartufai, che sono una delle particolarità del patrimonio gastronomico italiano».