La copertina dell'ultimo numero di Science Advances, con una cacciatrice americana preistorica disegnata da Matt Verdolivo

Anche le donne cacciavano nella preistoria?

I resti di una donna trovati in uno scavo archeologico sulle Ande hanno dato una nuova prova a sostegno di quest'idea, a lungo ritenuta infondata

Nel 1966 a Chicago si tenne un importante convegno di antropologi che ebbe una grande influenza sul modo in cui pensiamo alle società di cacciatori-raccoglitori della preistoria. Il convegno si intitolava “Man the Hunter”, cioè “L’uomo cacciatore”, un’espressione che riassume bene ciò che si disse: che tra i nostri antenati le donne si dedicavano alla raccolta di frutti e piante commestibili, mentre gli uomini cacciavano, e che proprio la caccia era non solo l’attività più importante per la sopravvivenza delle comunità, ma anche il fondamento dello sviluppo culturale della nostra specie. Secondo i relatori del convegno, cacciando gli uomini sarebbero stati spinti a cooperare tra loro, e quindi a sviluppare il linguaggio, e a ingegnarsi per costruire armi da usare contro gli animali. In altre parole: il principio del progresso umano sarebbe dovuto ai soli uomini, non agli uomini e alle donne insieme.

Le conclusioni del convegno furono contestate fin da subito da parte della comunità scientifica, ma l’idea generale ebbe larga diffusione. Alcuni studi e successive scoperte però l’hanno più volte messa in discussione. È successo anche questa settimana con uno studio pubblicato sull’ultimo numero di Science Advances, la prima rivista open access e solo online di Science, una delle più autorevoli riviste scientifiche. Lo studio si intitola “Cacciatrici delle antiche Americhe” e racconta del ritrovamento di resti umani femminili di 9.000 anni fa in una sepoltura che conteneva anche una ventina di punte di lancia e altri strumenti per la caccia in pietra.

Nelle sepolture preistoriche la presenza di un così gran numero di strumenti per cacciare indica che la persona sepolta lì era un importante e abile cacciatore. Infatti al momento del ritrovamento dei resti – avvenuto nel sito archeologico di Wilamaya Patjxa, a 3.925 metri di altitudine nel sud del Perù – tutti gli archeologi impegnati nello scavo pensarono di essere davanti alla tomba di un uomo. Poi il bioarcheologo Jim Watson dell’Università dell’Arizona notò che le ossa rimaste erano slanciate e leggere e disse a Randall Haas, primo firmatario dell’articolo di Science Advances e archeologo dell’Università della California Davis: «Penso che il tuo cacciatore sia una donna».

La sepoltura di Wilamaya Patjxa, nel sud del Perù, dove sono stati trovati i resti di una donna di 17-19 anni vissuta 9.000 anni fa insieme a strumenti da caccia (Science Advances/Randall Haas dell’Università della California Davis)

Il genere della cacciatrice fu poi confermato da un’analisi condotta sui resti dei suoi denti: nello smalto è stata trovata la versione femminile dell’amelogenina, una proteina la cui struttura varia leggermente tra uomini e donne perché è codificata da un gene che si trova su uno dei cromosomi sessuali. La donna aveva un’età compresa tra i 17 e i 19 anni e gli strumenti intorno ai suoi resti erano punte per lance, quello che probabilmente era un coltello, varie altre lame e strumenti usati per trattare la carne e la pelle degli animali. Alcuni di questi oggetti si trovavano vicino a una delle cosce della donna: secondo gli archeologi erano contenuti in un porta-oggetti di pelle che nel tempo si è disintegrato.

Ci sono due modi grazie a cui possiamo farci un’idea di come vivessero le persone nella preistoria. Il primo sono i ritrovamenti archeologici, che però sono rari e spesso ci rivelano frammenti di informazioni più che vere e proprie informazioni. Il secondo sono gli studi antropologici delle popolazioni che ancora oggi (o fino a un certo periodo del secolo scorso) vivono con uno stile di vita da cacciatori-raccoglitori.

«Negli anni Settanta la letteratura scientifica includeva alcuni riferimenti alle donne cacciatrici sparse in tutto il mondo, dal popolo di Tiwi al largo della costa settentrionale dell’Australia fino agli Inuit nell’Artico ghiacciato», racconta la giornalista e divulgatrice scientifica Angela Saini in Inferiori, un saggio sui pregiudizi sessisti nel mondo della scienza che per decenni hanno dato sostegno all’idea che le donne fossero “inferiori” agli uomini. Molti studi antropologici insomma hanno messo in discussione la teoria dell’uomo cacciatore. Saini cita in particolare il lavoro di Bion Griffin e Agnes Estioko-Griffin, che negli anni Settanta studiarono i Nanadukan Agta, una popolazione di cacciatori-raccoglitori di Luzon, nelle Filippine:

Qualsiasi membro Agta, maschio o femmina, fisicamente abile sapeva come pescare con l’arpione. Di ventuno donne sopra i quattordici anni nel gruppo, quindici erano cacciatrici, quattro avevano cacciato in passato e solo due non sapevano come cacciare. Nella metà di tutte le battute di caccia alle quali aveva assistito, uomini e donne cacciavano insieme. Se c’erano differenze, erano nel modo in cui le donne tendevano a cacciare. Per esempio, una donna non andava mai da sola, per evitare che le persone sospettassero che stava andando a un appuntamento segreto con un amante. Le donne cacciatrici erano anche le più propense a utilizzare i cani nella fase dell’uccisione.

Tuttavia se alcune popolazioni di cacciatori-raccoglitori contemporanei hanno o avevano uno stile di vita simile a questo, in altrettante, come gli Hadza della Tanzania e i San dell’Africa meridionale, i ruoli di genere erano ben divisi: solo gli uomini cacciano, mentre le donne raccolgono. Inoltre le prove archeologiche che contraddicessero la teoria dell’uomo cacciatore sono sempre state rare. Ma proprio per questo lo studio pubblicato su Science Advances è importante.

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Randall Haas, una volta confermato che i resti trovati a Wilamaya Patjxa appartenevano effettivamente a una donna, ha cercato di anticipare una probabile critica alla rilevanza della sua scoperta, cioè che la sua cacciatrice fosse un’eccezione alla regola. È andato a leggere tutti gli studi esistenti sui ritrovamenti di sepolture più antiche di 8.000 anni nelle Americhe (sono 107 in totale), per scoprire se altre donne fossero state sepolte insieme a strumenti di caccia. Così ha trovato altre 10 sepolture di donne i cui resti erano accompagnati da oggetti per cacciare; di uomini sepolti allo stesso modo ne sono stati trovati 16. Per questo, secondo Haas e i co-autori del suo articolo, «è probabile che anticamente la caccia di grosse prede fosse svolta da uomini e donne insieme».

Science ha chiesto dei commenti sullo studio di Haas a vari altri esperti che non erano stati coinvolti nella ricerca. Secondo Bonnie Pitblado, archeologa dell’Università dell’Oklahoma, ciò che lo studio conferma è che «le donne sono sempre state in grado di cacciare e lo hanno fatto», e anche secondo Meg Conkey, archeologa dell’Università della California Berkeley, le prove sono convincenti, anche se di scettici potrebbero essercene.

Robert Kelly dell’Università del Wyoming ad esempio non è convinto che le altre donne sepolte con strumenti di caccia trovate da Haas negli articoli su studi precedenti fossero tutte effettivamente cacciatrici: secondo lui la presenza di quegli oggetti nelle tombe non significa per forza che le donne li usassero in vita. Ad esempio, due delle 10 sepolture considerate contenevano i resti di bambine: è possibile che furono sepolte con strumenti di caccia perché gli uomini cacciatori a loro vicini volevano lasciare un proprio oggetto insieme ai loro resti, come espressione di lutto.

Per Bonnie Pitblado anche se non tutti i resti considerati da Haas appartenevano a cacciatrici il fatto che così tante sepolture di donne contenessero degli strumenti per la caccia suggerisce che si possano trovare altre prove archeologiche del fatto che anche le donne cacciavano nella preistoria. Eugenia Gayo dell’Università del Cile, una studiosa dell’ecologia umana, è d’accordo e pensa che ricerche di questo tipo possano dirci di più sugli ambienti in cui sia le donne che gli uomini erano coinvolti nella caccia. Il sito di Wilamaya Patjxa si trova a quasi 4.000 metri di altitudine: vivere così in alto, 9.000 anni fa come oggi, non era semplice e forse era importante che sia gli uomini che le donne fossero coinvolti in un’attività come la caccia per la sopravvivenza delle comunità.

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Le differenze negli stili di vita di uomini e donne nelle comunità contemporanee di cacciatori-raccoglitori suggeriscono che i ruoli di genere si siano differenziati o siano rimasti gli stessi (tra i Nanadukan Agta gli uomini partecipavano alle cure dei bambini al pari delle donne, peraltro) a seconda degli ambienti in cui queste comunità vivono o vivevano. Negli ambienti dove la caccia è più pericolosa per il tipo di animali su cui si basa e per il fatto che allontana i cacciatori dalla comunità per più giorni, le donne non cacciano: secondo gli antropologi Michael Gurven e Kim Hill, quando il rischio di morte è maggiore le donne non cacciano perché per la sopravvivenza di un gruppo perdere la madre è più dannoso per un bambino che perdere il padre. Ma quando l’ambiente lo permette, e la cultura della comunità prevede una condivisione delle cure genitoriali, le donne cacciano.

In conclusione, riassume Saini, «quando si tratta di vita familiare e lavorativa, la regola biologica sembra essere che non ci sono mai state regole. Mentre le realtà del parto e dell’allattamento sono costanti, la cultura e l’ambiente possono stabilire come vivono le donne tanto quanto lo fa il loro corpo».

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