Il pubblico della International Modest Fashion Week a Istanbul, 13 maggio 2016 (AP Photo/Lefteris Pitarakis)

È il momento di parlare di “moda modesta”

Cioè quella indossata dalle donne musulmane: è un mondo variegato e in crescita, dove provano a infilarsi anche le grosse aziende occidentali

Il 31 marzo doveva iniziare la prima settimana della moda in Arabia Saudita ma è stata sospesa e poi rimandata a maggio; si è invece svolto a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, l’evento A Modest Revolution, in cui circa trenta stilisti hanno presentato, proiettandole su uno schermo e senza le modelle, le loro collezioni di abbigliamento islamico; intanto Vogue britannico ha pubblicato sui social network la sua copertina del numero di maggio, la prima di sempre con una donna velata, la modella ventenne Halima Aden. Sono tutte notizie di cui si è parlato nell’ambiente della moda negli ultimi giorni, che fanno capire come il mondo dell'”abbigliamento musulmano” stia diventando sempre più rilevante: è interessante non solo perché riguarda una buona parte della popolazione mondiale, in crescita e con nuove risorse da investire nei vestiti e nel lusso, ma anche perché le aziende occidentali sono sempre più interessate a farsi strada in questo mercato.

In Occidente c’è una visione spesso stereotipata delle donne musulmane, represse e coperte da vestiti scuri dalla testa ai piedi: è una rappresentazione realistica ma spesso parziale, che non tiene conto delle tante che vogliono sentirsi belle e alla moda pur rispettando le regole di abbigliamento “halal” o “modesto”, che prevedono abiti non aderenti e non trasparenti che coprono gran parte del corpo. Neslihan Cevik, fondatore del marchio di moda halal M-Line Fashion, spiega che «all’interno di alcuni standard di modestia, le donne musulmane hanno centinaia di esigenze diverse, che sono aumentate negli ultimi anni e rispondono in parte alle necessità di quelle impegnate in attività pubbliche o che lavorano fuori casa».

La “modest fashion” è estremamente variegata, comprende stilisti con gusti diversissimi tra loro che si intrecciano a quelli dei paesi a cui è rivolta, dall’Africa del Nord all’Asia, dagli Stati Uniti alle minoranze nelle città europee. Reina Lewis, professoressa al London College of Fashion, spiega che l’espressione si diffuse nella metà degli anni Duemila, quando nacquero i primi marchi disegnati da stilisti «con motivazioni religiose». Non ha un significato univoco e, dice la stilsita Hana Tajima che ha lavorato alla collezione musulmana per Uniqlo, «ognuno ha la sua idea di cosa voglia dire». In generale indica l’attenzione delle donne, per motivi religiosi, di appartenenza culturale o a volte semplicemente estetici, nel coprire alcune parti del corpo.

I capi principali sono la abaya, la tunica che lascia scoperti solo volto, mani e piedi, e l’hijab, il velo che lascia scoperto il viso, che ora si trovano in colori accesi e fantasie brillanti, con ricami, perle e tessuti preziosi. La modestia infatti non si estende al pregio di tessuti e accessori: per esempio a Dubai la stilista italiana Isabella Caposanno, che ha tra i suoi clienti la famiglia reale saudita, ha presentato un abito fatto a mano che costa 30 mila euro. I marchi halal poi non si rivolgono solo a donne musulmane ma vengono acquistati anche da ebree ortodosse, che portano vesti fino alle caviglie e il capo coperto, in cerca di uno stile sobrio ed elegante.

Tra i paesi musulmani in cui la moda modesta vende di più c’è la Malesia, dove sta crescendo molto l’industria halal in generale, che in tutto il mondo conta su un mercato di oltre 2 miliardi di dollari all’anno in settori che vanno dal cibo al turismo, con hotel che offrono tappeti dove pregare e piscine riservate per uomini e donne. È per esempio malese Fashion Valet, una delle più grosse piattaforme di e-commerce di abbigliamento musulmano, fondata otto anni fa dalla stilista Vivy Yusof insieme al marito: seleziona e rivende circa 400 stilisti del Sud Asiatico ed è cresciuta ogni anno del cento per cento.

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Anche in Turchia l’abbigliamento musulmano è in crescita e il governo ha da poco creato un’agenzia apposita per certificare i prodotti halal; è per esempio a Istanbul che venne organizzata, nel 2014, la prima Modest Fashion Week, che aprì la strada a eventi analoghi a Dubai e a Londra; la prossima edizione si terrà il 13 e il 14 maggio. Gli affari vanno di pari passo con lo sviluppo dell’e-commerce, soprattutto verso paesi europei dove i negozi al dettaglio non offrono abbigliamento tradizionale musulmano e molte donne devono cercarlo altrove, facendoselo portare da parenti, comprandolo nei viaggi all’estero o appunto online. Una delle più grandi piattaforme di e-commerce di moda modesta è la turca Modanisa, fondata nel 2011 da Kerim Ture, che iniziò vendendo tuniche lunghe e larghe e anticipando tutti i pagamenti ai fornitori, scettici del progetto. Ora vende più di 300 marchi in 120 paesi ed è visitata ogni anno da 100 milioni di persone.

Nella sede di Modanisa a Istanbul, 6 settembre 2016
(GURCAN OZTURK/AFP/Getty Images)

Ture ha raccontato che l’idea di Modanisa le venne una sera al ristorante, dopo aver osservato al tavolo vicino «una ragazza di circa 20 anni e sua madre, vestite esattamente nello stesso modo» perché non avevano abbastanza scelta. Ebbe subito successo e ottenne un finanziamento di 5 milioni di dollari da STC ventures, un’impresa di investimenti saudita; al momento è in crescita in molti paesi europei come la Germania, la Francia e il Regno Unito. Anche l’Indonesia, dove vive il 12 per cento della popolazione musulmana mondiale, è stata favorita soprattutto da internet: la moda halal è esplosa nel 2010 con la diffusione dei social network, frequentati da ragazzi e giovani influencer che suggerivano cosa indossare.

Se da un lato ci sono i paesi musulmani con le grandi piattaforme di abbigliamento online, dall’altro ci sono stilisti nati per caso in contesti di minoranza per rispondere alle esigenze delle comunità locali. La stilista russa Dilyara Sadrieva iniziò a cucirsi gli abiti per hobby perché la maggior parte dei vestiti modesti venivano da Turchia e Medio Oriente ed erano molto lontani dalle esigenze climatiche e dal gusto del posto in cui viveva. Le amiche iniziarono a chiederle vestiti anche per loro e così nacque Bella Kareema, che ora vende centinaia di capi all’anno e partecipa alle Settimane della moda di Londra, Dubai e Istanbul. La sua storia è simile a quella di Faduma Aden, che ha fondato in Svezia Jemmila. Rabia Z, che è forse la stilista di moda halal più famosa, iniziò nel 2001 quando viveva negli Stati Uniti: «Subito dopo l’11 settembre molte mie amiche iniziarono a togliersi l’hijab, date le circostanze. Io non volevo e visto che già frequentavo il mondo della moda decisi di crearmi da sola gli hijab e i vestiti. Piacquero anche agli altri e così li misi in vendita online. Da allora le richieste dei clienti non si sono fermate e, lo ammetto, non avrei mai pensato che non ci fosse nessuno a creare vestiti per milioni di donne musulmane».

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Secondo un recente rapporto di Reuters condotto in 70 paesi a maggioranza islamica, nel 2015 i musulmani hanno speso in abbigliamento 243 miliardi di dollari, quasi 200 miliardi di euro, di cui 107 miliardi di dollari (87 miliardi di euro) di acquisti online; l’aspettativa di crescita è di oltre 368 miliardi, quasi 300 miliardi di euro, entro il 2021; già nel 2018 avranno raggiunto i 327 miliardi (265 miliardi di euro), più degli attuali mercati di Regno Unito (109 miliardi di dollari), Germania (99) e Italia (96). Secondo le proiezioni, la produzione di beni interni nei paesi musulmani crescerà di una media del 5,4 per cento all’anno; quella dell’Europa, in confronto, del 3,4. Stando alle previsioni della rivista di moda Business of Fashion, nel 2018, per la prima volta, più della metà delle vendite di abbigliamento e calzature avverrà fuori da Europa e Nord America; le zone emergenti saranno l’Asia, con un aumento dal 6,5 al 7,5 per cento, e il Medio Oriente, con un aumento del 6 per cento.

Da questi numeri si capisce facilmente l’interesse di molte aziende occidentali per il mondo della moda musulmana. In Europa, Londra è all’avanguardia e nel febbraio del 2017 organizzò la sua prima Modest Fashion Week. Il Guardian la descrisse come un evento affascinante dall’una e dall’altra parte della passerella, con donne tra il pubblico in tuniche di seta e turbanti, mantelli di pelle e gioielli al naso o lunghi kimono fruscianti, a osservare modelle in burkini e hijab, burqa colorati, pantaloni a palazzo di velluto, tute in colori pastello e abiti da sera degni di un romanzo di Fitzgerald. Rahemur Rahman, uno degli organizzatori, ha spiegato che «l’obiettivo è entrare a far parte della settimana della moda di Londra e presentare i marchi di moda modesta internazionali insieme agli altri. Dobbiamo smettere di chiamarla moda modesta e chiamarla semplicemente moda».

Intanto grandi magazzini, marchi economici e di alta moda hanno iniziato a vendere collezioni per le donne musulmane. Nel 2014 DKNY confezionò una Ramadan Collection, seguita da Tommy Hilfiger, Oscar De La Renta, Victoria Beckham, Zara, H&M, Mango e Uniqlo; Nike ha lanciato uno hijab appositamente progettato per le atlete musulmane, Dolce & Gabbana una linea di veli e occhiali da sole coordinati. Lo scorso mese la catena di grandi magazzini americani Macy’s ha messo in vendita online una linea di abbigliamento per appassionate di moda musulmane, con tuniche dal collo arricciato, tute morbide e cardigan lunghi fino alla caviglia.

Il rischio per i marchi occidentali è pensare di rivolgersi a un mondo compatto, il-mondo-musulmano in quanto tale, senza tener conto delle mille sfaccettature culturali e di gusto di quel mondo. Un altro problema, scrive Business of Fashion è risultare credibili e guadagnarsi la fiducia dei clienti musulmani senza imporre dall’alto un abbigliamento stereotipato; il modo migliore per trattare la moda modesta, aggiunge, è considerarla una categoria stilistica più che culturale e religiosa, al pari dello streetwear, dell’abbigliamento da cerimonia o per l’ufficio.

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Bisogna anche ricordare che la moda modesta non coincide per forza con le scelte di abbigliamento di tutte le donne musulmane, e nel mondo islamico è in corso un grosso dibattito proprio sul modo di vestire delle donne e in particolare sul velo. In Iran (dove il velo è obbligatorio per tutte le donne, anche quelle non musulmane e quelle straniere in visita nel paese), levarselo anche per pochi minuti è un modo per affermare la propria libertà: esattamente il contrario di quel che accade in Francia o in alcuni stati americani, dove invece indossarlo è almeno in teoria una scelta personale. Quando nel 2013 venne lanciato il World Hijab Day per invitare tutte le donne, a prescindere dalla religione, a indossare il velo per un giorno, molte musulmane organizzarono una campagna opposta, il #nohijabday. Di recente si è infilato nel dibattito anche il potente principe saudita ed erede al trono Mohammed bin Salman (MbS, come viene chiamato) dicendo che le donne sono libere di vestirsi come vogliono, a patto che siano decenti e rispettose.

Stanno contribuendo a questi cambiamenti anche le riviste di moda e nel 2017 già Allure, prima di Vogue britannico, aveva messo in copertina la modella Halima Aden con il velo. A portare al centro del dibattito la moda modesta di lusso è soprattutto Vogue Arabia, fondata nel marzo del 2017 e distribuita in Arabia Saudita, Bahrain, Qatar, Kuwait, Oman, Emirati Arabi Uniti, Libano e Giordania. Inizialmente diretta dalla principessa Deena Aljuhani Abdulaziz, da maggio è guidata da Manuel Arnaut; è finanziata da Condé Nast insieme a Nervora, un’azienda di comunicazione di Dubai, che l’hanno aperta persuasi dalla crescente attenzione degli investitori sauditi nel lusso e nell’abbigliamento. Oltre a essere il punto di riferimento della moda musulmana, Vogue Arabia cerca di spezzare gli stereotipi dall’una e dall’altra parte e portare avanti un confronto interessante; per la Festa della donna ha per esempio pubblicato un video con donne musulmane da tutto il mondo che, con o senza velo, spiegavano cos’era la modestia per loro: un modo di vestire ma soprattutto una condizione interiore, nel rispetto di tutte.

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